sabato 9 agosto 2014

Il Liceo Unitario Sperimentale di Roma (1971-1979): la testimonianza di Giulio Savelli, ex-studente (terza parte)

Nell’allegra e appassionata baraonda del nostro liceo, però, non è affatto vero che non si studiasse. Semplicemente, lo studio era una scelta personale e si concretizzava attraverso un preciso atto di volontà. Pochi studiavano tutto, alcuni solo alcune materie. Ma oltre a quelle curricolari della mattina c’erano le attività pomeridiane, ed era impossibile che qualcuno non amasse almeno qualcosa. Teatro e musica avevano insegnanti straordinari (Wilda Ciurlo e Meri Franco Lao), c’era fotografia, psicologia, architettura, sociologia, economia, pedagogia, ceramica, storia delle religioni, e chissà quante altre materie che ora non ricordo, c’era un cineclub dove ho visto tutto Buñuel e tutto Bergman. Spesso venivano ospiti esterni a tenere incontri o seminari (ricordo per esempio una straordinaria analisi dello stile musicale di Beethoven proposta non so più da chi) o semplicemente a parlare della loro esperienza (ricordo Ferruccio Parri, ricordo Cancrini). Quella che in burocratese si chiama oggi “offerta formativa” era una foresta tropicale lussureggiante di proposte, inviti, suggerimenti e adescamenti, possibilità illimitate promettenti tutto lo scibile umano, una specie di paradiso terrestre del sapere, dove potevamo annoiarci a volontà allungando una mano distrattamente per prendere il frutto più vicino e maturo. Gli insegnanti cercavano di fare lezioni tradizionali, rese molto frammentarie dalle condizioni di gestione complessive, ma erano a disposizione dei singoli. A disposizione nel senso più pieno: per esempio, l’ultimo anno mi sono appassionato di filosofia, e con la mia prof ho passato molti giorni in biblioteca fuori dell’orario scolastico a leggere la Critica della Ragion Pratica, commentata da lei per me, passo per passo, interamente. E così poteva essere, volendo, per ogni materia, per ogni cosa.
Quando il tempo era buono spesso si stava all’aperto. La sede di via della Bufalotta era stata una colonia agricola, c’era un ampio uliveto alle spalle dell’edificio e lì si rimaneva spesso sdraiati sull’erba. Ricordo un “corso sull’erba” su Thomas Mann, tenuto da Carlo Illuminati, bellissimo. Ogni tanto arrivavano delle mucche, e talvolta si mettevano a correre causando un fuggi fuggi collettivo. Oltre alle mucche c’erano gli amatissimi cani randagi adottati dalla scuola (fra cui l’indimenticabile Iskra), che d’estate disturbavano le greggi che passavano da quelle parti (ho ancora in mente l’immagine di un pastore, in cioce, arrabbiatissimo in attesa di fronte alla porta chiusa della presidenza) e d’inverno, con la pioggia, venivano ad asciugarsi all’interno (l’unica proibizione davvero rispettata nella scuola era il divieto per i cani di scrollarsi in biblioteca). Era di fatto possibile entrare e uscire dalla classe e dalla scuola liberamente - in realtà bastava rispettare le comuni regole d’educazione, che vogliono che quando uno si allontana da un gruppo accenni al motivo e saluti. Le giustificazioni, obbligatorie, erano un mero ornamento burocratico a una realtà di rapporti fondata sulla conoscenza reciproca, che implicava il rispetto per la libertà di ciascuno, compresa quella di sbagliare deliberatamente. Tutto l’anno qui e là e sotto il portico, a ogni ora, si potevano trovare coppie che si baciavano. 

Ora, tutto questo sembra assurdo eppure era scuola, nel senso più ampio possibile. Per alcuni, come me, è stato anche studio. Sbagliando - posso ben dirlo, a posteriori - ho studiato solo le materie umanistiche, non frequentando neppure un’ora di scienze naturali, di fisica e di matematica per tre anni (meno delle quattro materie che secondo il Regolamento avrebbero potuto condurre a bocciatura), ma quello che ho studiato l’ho studiato intensamente e appassionatamente. Qualcosa di ciò che richiede esercizio l’ho imparato, lì a scuola, da autodidatta (per esempio a scrivere) e altro non l’ho imparato - troppo scarso, per esempio, è stato il lavoro su latino e greco per consolidare quanto fatto in classe. Così, moltissimo di ciò che avrei dovuto assimilare al liceo l’ho appreso più tardi, durante l’università e dopo, rimpiangendo via via di non averlo studiato allora. Certamente però in una scuola tradizionale sarei rimasto bloccato dall’angoscia e dalla ribellione e non avrei combinato nulla.
Per molti altri miei compagni invece il Liceo Sperimentale non è stato altrettanto positivo. Il tempo perso, gli spazi illimitati di distrazione, la dispersione in troppe materie, la mancanza di quegli esercizi che permettono alla fine di possedere una pratica intellettuale, lo spazio grandissimo preso dall’attività politica, l’impegno richiesto dalla gestione assembleare di ogni singolo atto, ma soprattutto l’assenza di qualunque forma di disciplina che non fosse autodisciplina, non hanno permesso ad alcuni di imparare ciò che avrebbero potuto e voluto imparare; per altri non è stato possibile neppure intuire che c’era qualcosa di interessante da imparare. Troppa confusione attorno. Non è detto, però, che l’esperienza dello Sperimentale non abbia insegnato anche a loro qualcosa.
Nel 1979 il Liceo Sperimentale venne chiuso. I tempi erano cambiati.

 Un consuntivo dell’esperienza del LUS non ho alcun titolo per farlo io da solo: occorrerebbe un confronto ampio e prolungato soprattutto con i professori che ci hanno insegnato, oltre che con pedagogisti ed esperti dei modelli scolastici. Mi pare che ci siano però alcune evidenze. L’eccellenza intellettuale e creativa non ha bisogno di una scuola superiore seria e disciplinata, e un paio di nomi - Valerio Magrelli, poeta, Marcella Diemoz, fisico – possono bastare a dimostrarlo. Le carriere professionali brillanti e riuscite, egualmente, non hanno bisogno di una scuola seria e disciplinata. Anche qui bastano un paio di nomi: Riccardo Barenghi e Francesca Archibugi (la quale, come regista, non sembra aver risentito più che tanto della sua scuola incasinata). Neppure la mia mediocrità – posso affermarlo serenamente – è dovuta allo scarso rigore di quella stramba scuola. Sembra insomma che, almeno per noi pochi ex-allievi dello Sperimentale, abbiano influito più le capacità individuali, la famiglia d’origine e la sorte che la baraonda scolastica. Ognuno è diventato ciò che è a furia di anni, e di casini ben diversi da quelli spensierati del riprovevole istituto di via della Bufalotta. L’evidenza, insomma, tenderebbe a suggerire che l’impatto della serietà o non-serietà di una scuola superiore sul destino professionale di un individuo sia scarso, se non nullo.
Ciò non significa che il Liceo Sperimentale non abbia influito in alcun senso sulla nostra crescita. Oggi c’è una pagina FB che riunisce un folto gruppo di ex-allievi e professori del Liceo Unitario Sperimentale; lì (oltre che sul sito creato da Roberto Renzetti) si possono trovare foto e qualche commento su quanto vissuto allora. In un post di quelle pagine c’è un’osservazione del mio amico e compagno di scuola Marco Tocilj che considero preziosa. Parlando dell’esperienza rappresentata per ciascuno di noi dallo Sperimentale, cita un proverbio africano: «Per educare un bambino ci vuole un villaggio», e chiosa: «l'essere cresciuto in un "villaggio di matti" mi ha molto aiutato ad interagire con la follia del mondo, quella degli altri e pure con la mia». Se una scuola disciplinata e produttiva insegna quale sia il proprio posto in un universo ben perimetrato, ordinato ed efficiente, lo Sperimentale ha insegnato piuttosto a muoversi in un mondo aperto, confuso ma ricco di stimoli, contraddittorio, dove le regole sono inefficaci, in cui i desideri personali hanno uno spazio esagerato, i diritti altrui uno spazio ancora maggiore, e ogni cosa va quindi discussa, un mondo in cui i doveri sono impegni e scelte personali, responsabilità intime, decisioni cresciute fra sé e sé. Lo Sperimentale ha insegnato a dialogare e a discutere non solo quando ci si comprende ma anche quando non si conosce la lingua dell’interlocutore - che magari sei tu stesso. Più in generale, a non sentirsi a disagio e in pericolo nel mare aperto della libertà.

Non è stato un modello replicabile. Piuttosto, è stata un’esperienza importante e da non dimenticare.

(di Giulio Savelli)