lunedì 11 marzo 2013

La scuola per Benedetto Vertecchi: autoreferenzialità elevata a sistema


La deriva autoritaria e autoreferenziale della scuola italiana (e occidentale più in generale) è ben rappresentata dal recente articoletto di Benedetto Vertecchi apparso sull’Unità del 7 marzo scorso: "Scarsi in matematica? Colpa della volgarità". Vertecchi annuncia, con quel compiacimento che accompagna spesso analisi del genere, l’ennesima figuraccia dell’Italia nell’ultimo rapporto sui livelli di apprendimento. Questa volta sul banco degli imputati c’è la matematica. Lo studioso evidenzia le motivazioni per cui l’apprendimento dei ragazzi è così scarso negli ultimi decenni e afferma:
Gli stili di vita prevalenti nei Paesi industrializzati riducono progressivamente l’uso delle competenze di base nelle pratiche quotidiane. Si legge e si scrive sempre di meno, e c’è sempre minor bisogno di calcolare.
Siamo alle solite. La colpa è della maledetta tecnologia che ci semplifica troppo la vita. Ascoltiamo invece di leggere, parliamo invece di scrivere, e magari per fare le addizioni usiamo il calcolatore elettronico invece di mettere i numeretti in colonna! Non ci siamo. In questo modo scriviamo, leggiamo e calcoliamo poco, con il disprezzabilissimo risultato di semplificarci l'esistenza. E poi nei test istituzionali risulteremo scarsi.
Sconcerta il fatto che Vertecchi, e i tanti come lui, non si pongano mai il problema in termini differenti. Non è che le abilità dei giovani si sono trasformate e che quei questionari, frutto di una superata visione meccanica, produttivistica e utilitaristica della conoscenza, non sono più adeguati a misurarne le abilità? Parliamo ovviamente di abilità al plurale, perché questo almeno dovrebbe essere scontato. Anche se a leggere Vertecchi sembra sempre e solo l’intelligenza logico-sequenziale quella da tenere in considerazione (e non a caso anche riferendosi alla lingua parla di grammatica, sintassi, etc., e quando parla di affettività, ne parla in termini riduttivi, anzi spregiativi e manipolativi). Siamo ancora al modello dell’uomo razionale ad una dimensione, senz’anima, intuito e passioni, tutto calcolo, utilità ed efficientismo? Sembrerebbe proprio di sì. D’altra parte, Vertecchi è un docimologo, e purtroppo le sue analisi sono viziate da un peccato ab origine: partono tutte da dati statistici, da qualcosa che è ben misurabile e valutabile. E come abbiamo detto più volte, quasi tutte le cose facilmente misurabili in un essere umano sono anche le meno ricche e le più superficiali. D’altra parte, il tipo di individuo che oggi ottiene risultati positivi nei questionari di valutazione scolastica non lo definiremmo intelligente e/o sensibile, ma piuttosto integrato e conforme al modello produttivistico dominante. Modello dominante nelle alte sfere produttive, ma in via di sparizione nella sensibilità comune. Come mostrano proprio i dati che Vertecchi analizza con tanto allarmismo. Chissà come reagirebbe il noto docimologo se si accorgesse che stanno emergendo nuove abilità nelle ultime generazioni, tra cui quella di operare analogicamente, simultaneamente, sinesteticamente, comunitariamente e che queste abilità aprono nuove possibilità di organizzazione dell’esistenza e dell’esistente. Vivere più organicamente e meno meccanicamente, ad esempio. L'immersione al posto della costrizione/misurazione. Rifiutare l’isolamento individualistico scolastico, freddo ed efficientistico, preferendo il coinvolgimento in vivi contesti di apprendimento neotribali e informali, ma non per questo “volgari”. Volgare resta – e non c’è nulla di provocatorio in questa affermazione - il tentativo di plasmare con forza il mondo a propria immagine, soprattutto quando quell’immagine è da tempo superata (e per fortuna, aggiungiamo noi). D’altra parte quando si è ormai lontanissimi dal sentire il fluire della vita, si può finire anche con il proporre soluzioni davvero sconcertanti come la seguente di Vertecchi:
Essenziale in questa prospettiva è un forte incremento della presenza della scuola nell’organizzazione della vita di bambini e ragazzi: si tenga conto che i risultati migliori sono quelli che si ottengono nei sistemi scolastici che operano su tempi distesi e impegnano una parte più consistente del tempo degli allievi.
Come a dire: questo mondo non ci piace come sta andando a finire, cerchiamo di curarlo con un po’ di scolarizzazione in più e dopo questa bella terapia tutto andrà a posto. Invece di lasciar fluire piacevolmente  e naturalmente l'apprendimento nella vita quotidiana, si tenta di rinchiuderlo a forza nelle mura scolastiche. Un tentativo che, se non fosse patetico e destinato a rapida sconfitta, dovrebbe essere guardato con pericolosità perché violento e autoritario. Ci si rende conto che la scuola non riesce più a produrre individui come desideriamo, e come cura cosa si propone? Più scuola. Aumentare le dosi del farmaco, perché il paziente non risponde più alla terapia.
Siamo di fronte ad una visione del mondo che, per fortuna, si delegittima nello stesso momento in cui tenta disperatamente di imporsi. Se chi fa l’apologia del calcolo e della razionalità, non è più capace delle osservazioni più elementari, possiamo dire ancora una volta che non vediamo altra soluzione alla crisi della scuola che non sia la descolarizzazione. Processo per altro già in atto naturalmente, ma che le istituzioni fanno finta da tempo di non vedere per non ammettere di dover ripensare completamente uno dei pilastri della modernità: la scuola appunto, l’unica cosa - ahimè - che resta davvero volgare a questo mondo.

Antonio Saccoccio