lunedì 30 dicembre 2013

Gustavo Esteva e l'Universidad de la Tierra: descolarizzare il mondo

In questo 2013 Gustavo Esteva è stato protagonista di una serie di conferenze e incontri in mezza Italia (Torino, Milano, Padova, Venezia, Bologna, Lucca, Firenze, Roma), momenti in cui ha rilanciato le sue idee radicali sull'educazione, la scuola e l'università. Esteva dichiara di ammirare Ivan Illich, e non è un caso se ha recentemente pubblicato in Italia un libello dal titolo emblematico Senza insegnanti. Descolarizzare il mondo. Per Esteva la scuola funziona su un principio errato: elimina la libertà di apprendimento e costringe a memorizzare una serie di nozioni che non hanno nessun rapporto con la nostra esistenza. Per questo nelle scuole e nelle università si apprende così poco.
Racconta Esteva: 

In Messico, come in tutti i paesi, la scuola si è creata per togliere agli indigeni l'essere indigeno. Molte comunità hanno abbandonato la scuola e hanno mandato via i professori, creando uno scandalo, perché i giornali scrivevano che questi barbari condannano i loro bambini all'ignoranza. Però in realtà succedeva il contrario. Un buon antropologo ha voluto quindi dimostrare ai genitori quale era il danno che gli insegnanti provocavano ai bambini: in questa esperienza si mettevano alla prova i bambini che andavano a scuola con quelli che non ci andavano, e con sorpresa dei genitori i bambini che non andavano a scuola erano molto più bravi di quelli che ci andavano, nel leggere, nello scrivere, nell'aritmetica, nella geografia, con un'unica eccezione: quelli che andavano a scuola sapevano cantare l'inno nazionale!

Per risolvere questo tipo di problemi Esteva ha fondato a Oaxaca, in Messico, con la partecipazione della comunità locale, l'"Universidad de la Tierra", un esempio ammirevole di come si possa rifondare completamente la nostra idee di apprendimento. E' un'università che non ha professori e non ha curricula, un'università in cui la gente apprende facendo con altri ciò che stanno facendo. In parole povere: non si abbandona mai la naturalezza che caratterizza l'apprendimento infantile. Ad esempio, se uno vuole fare l'avvocato agrario, impara a farlo direttamente sul campo, senza perdere tempo memorizzando leggi che resteranno senza alcuna applicazione.
Al centro di tutto è la libertà di apprendere, l'idea che il giovane è sempre padrone del proprio apprendimento, ha il pieno controllo del proprio processo di apprendimento.

Una delle affermazioni più importanti di Gustavo Esteva è che la nostra idea di educazione ha avuto chiaramente un inizio (nella modernità) e quindi può avere una fine. Questa affermazione è di notevole importanza perché per l'idea che l'educazione scolastica sia indispensabile è entrata talmente tanto in profondità nelle nostre vite, che gli esseri umani credono ormai che sia inevitabile. Non è così: la scuola è un'istituzione creata dall'uomo e dall'uomo può essere cancellata. Come la schiavitù, le carceri e molto altro.

"La scuola si presenta come un regime obbligatorio e discriminatorio", afferma Esteva. Se tutti avessero la capacità di vederla in questi termini, la scuola e l'università avrebbero i giorni contati ovunque. Non solo a Oaxaca.

Antonio Saccoccio

giovedì 17 ottobre 2013

Noam Chomsky e l'inutilità degli studi universitari

Noam Chomsky è spesso criticato per le sue posizioni politiche, ritenute da qualcuno ingenue o addirittura semplicistiche. Forse non si perdona allo studioso di essere stato un linguista e poi esser divenuto un uomo dalla visione politica radicale. Non gli si è perdonato la capacità di passare da un campo all'altro, per la solita cieca fissazione moderna che impedisce a priori ad un individuo di occuparsi di saperi diversificati. O forse non gli si perdona di avere il dono di parlare semplicemente e chiaramente, dono che per i soliti modernissimi benpensanti è invece scambiato per difetto. Ma la semplicità, nel caso di Chomsky, non è semplicismo. Saper illuminare nodi cruciali della contemporaneità è un pregio dello studioso statunitense. E non è stato da meno anche quando ha parlato dell'istruzione, della scuola e dell'università. Notevole il seguente passo tratto da "Capire il potere", in cui afferma perentoriamente che l'università è praticamente inutile, perché in nessuna facoltà di studia ciò che è davvero importante per la nostra vita. 

"Ma se uno volesse studiare i fenomeni importanti nella vita moderna, in quale università dovrebbe andare o a quale professione accademica dovrebbe dedicarsi? Non dovrebbe frequentare una facoltà economica, perché lì non si trattano questi argomenti: lì si elaborano modelli astratti del funzionamento dell'economia della libera impresa, sapete, proiezioni in uno spazio a dieci dimensioni di un inesistente sistema di libero mercato. Non dovrebbe frequentare quella di scienze politiche, perché lì si studiano statistiche elettorali, campioni di votanti e microburocrazia, per esempio il modo in cui un burocrate parla a un altro in una determinata situazione. Non dovrebbe frequentare quella di antropologia, perché lì si studiano le tribù della Nuova Guinea, né i corsi di sociologia, dove ci si occupa dei crimini commessi nei ghetti. In effetti non dovrebbe frequentare nessuna facoltà, perché nessuna tratta questi problemi. Non ci sono riviste che ne parlino. Non esistono strutture accademiche che si occupino delle questioni fondamentali della società moderna. Non è un caso che non ci sia un campo che studia questi problemi, perché se ci fosse la gente potrebbe capire troppe cose e, in una società relativamente libera come la nostra, cominciare a dare uno sbocco a questa conoscenza, eventualità che nessuna istituzione vuole incoraggiare. Non c'è nulla, infatti, di quanto ho detto che non potrebbe essere spiegato a uno studente delle superiori. Ma queste materie non fanno parte dei corsi, perché lì si studia il modo in cui le cose dovrebbero funzionare, non quello in cui funzionano davvero"

Tutto ciò che potrebbe aiutarci a migliorare la nostra esistenza non viene insegnato, viene lasciato nell'ombra, viene dimenticato. Tutto deve continuare ad andare come sempre. Si studia per confermare l'esistente, non per rinnovarlo e migliorarlo. Si studia per niente.

Antonio Saccoccio

venerdì 28 giugno 2013

Carmelo Bene contro le scuole e l'istruzione obbligatoria



Carmelo Bene mostra in sintesi la pericolosità delle scuole. Unica soluzione: bisogna chiudere le scuole. L'istruzione obbligatoria è come la Siberia.

giovedì 30 maggio 2013

Educazione parentale e obbligo d'istruzione (Nota ministeriale n. 781 del 4 febbraio 2011)

Nota ministeriale n. 781 del 4 febbraio 2011

Oggetto: Iscrizioni alle scuole di istruzione secondaria di secondo grado relative all'anno scolastico 2011/2012 - Precisazioni.
Ad integrazione della C.M. n.101 del 30 dicembre 2010, relativa alle iscrizioni per l’anno scolastico 2011/2012, si forniscono le seguenti precisazioni.

Educazione parentale e obbligo d’istruzione

In relazione ad alcuni quesiti riguardanti la possibilità per gli studenti di assolvere all’obbligo d’istruzione mediante l’educazione parentale si rappresenta quanto segue.
La C.M. n. 101/2010 riferisce l’istituto dell’istruzione familiare al segmento formativo del primo ciclo, senza precisare se l’istruzione parentale possa valere per l’intera fascia dell’obbligo.
Al riguardo, la lettura coordinata della normativa, nonché un recente parere espresso dal Consiglio di Stato in data 19-1-2011, n.579 su un ricorso straordinario al Capo dello Stato, portano a ritenere che l’istruzione parentale costituisca modalità di assolvimento dell’obbligo di istruzione alternativa alla frequenza dei primi due anni degli istituti d’istruzione secondaria di secondo grado o alla frequenza dei percorsi di istruzione e formazione professionale finalizzati al conseguimento di una qualifica.
Infatti, se l’art.111 del decreto legislativo n.297/1994 riferiva letteralmente la possibilità di tale tipologia educativa alla scuola elementare e media, il successivo art.112 considerava assolto l’obbligo scolastico con il conseguimento del diploma di licenza media ovvero, nel caso di mancato conseguimento, con il compimento del quindicesimo anno di età, a condizione che lo studente dimostrasse di avere osservato per almeno otto anni le norme sull’obbligo,
Tali disposizioni devono essere interpretate anche alla luce della successiva legislazione che ha elevato l’obbligo da otto a dieci anni.
In particolare, l’articolo 1, comma 622, della legge 27-12-2006, n. 296 prevede che «L’istruzione impartita per meno dieci anni è obbligatoria ed è finalizzata a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata ameno triennale entro il diciottesimo anno di età».
Il medesimo comma 622 della legge n.296/2006 prevede inoltre che «L’adempimento dell’obbligo di istruzione deve consentire, una volta conseguito il titolo di studio conclusivo del primo ciclo, l’acquisizione dei saperi e delle competenze previste dai curricula relativi ai primi due anni degli istituti di istruzione secondaria superiore».
Infine l’art. 3, secondo e terzo comma, del D.M. 139/2007, recante il regolamento in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione, prevede che gli studenti che non hanno conseguito il titolo conclusivo del primo ciclo e che hanno compiuto il sedicesimo anno di età possano conseguire tale titolo anche nei centri provinciali per l’istruzione degli adulti ovvero, dove ancora non istituiti, presso i centri territoriali permanenti.
Pertanto, da una interpretazione logico sistematica della normativa deriva che l’educazione parentale si riferisce a tutta la fascia dell’obbligo di istruzione e deve tendere, come le altre modalità di adempimento dell’obbligo, al conseguimento del titolo di studio conclusivo del primo ciclo e all’acquisizione dei saperi e delle competenze relativi ai primi due anni di istruzione secondaria superiore.


lunedì 11 marzo 2013

La scuola per Benedetto Vertecchi: autoreferenzialità elevata a sistema


La deriva autoritaria e autoreferenziale della scuola italiana (e occidentale più in generale) è ben rappresentata dal recente articoletto di Benedetto Vertecchi apparso sull’Unità del 7 marzo scorso: "Scarsi in matematica? Colpa della volgarità". Vertecchi annuncia, con quel compiacimento che accompagna spesso analisi del genere, l’ennesima figuraccia dell’Italia nell’ultimo rapporto sui livelli di apprendimento. Questa volta sul banco degli imputati c’è la matematica. Lo studioso evidenzia le motivazioni per cui l’apprendimento dei ragazzi è così scarso negli ultimi decenni e afferma:
Gli stili di vita prevalenti nei Paesi industrializzati riducono progressivamente l’uso delle competenze di base nelle pratiche quotidiane. Si legge e si scrive sempre di meno, e c’è sempre minor bisogno di calcolare.
Siamo alle solite. La colpa è della maledetta tecnologia che ci semplifica troppo la vita. Ascoltiamo invece di leggere, parliamo invece di scrivere, e magari per fare le addizioni usiamo il calcolatore elettronico invece di mettere i numeretti in colonna! Non ci siamo. In questo modo scriviamo, leggiamo e calcoliamo poco, con il disprezzabilissimo risultato di semplificarci l'esistenza. E poi nei test istituzionali risulteremo scarsi.
Sconcerta il fatto che Vertecchi, e i tanti come lui, non si pongano mai il problema in termini differenti. Non è che le abilità dei giovani si sono trasformate e che quei questionari, frutto di una superata visione meccanica, produttivistica e utilitaristica della conoscenza, non sono più adeguati a misurarne le abilità? Parliamo ovviamente di abilità al plurale, perché questo almeno dovrebbe essere scontato. Anche se a leggere Vertecchi sembra sempre e solo l’intelligenza logico-sequenziale quella da tenere in considerazione (e non a caso anche riferendosi alla lingua parla di grammatica, sintassi, etc., e quando parla di affettività, ne parla in termini riduttivi, anzi spregiativi e manipolativi). Siamo ancora al modello dell’uomo razionale ad una dimensione, senz’anima, intuito e passioni, tutto calcolo, utilità ed efficientismo? Sembrerebbe proprio di sì. D’altra parte, Vertecchi è un docimologo, e purtroppo le sue analisi sono viziate da un peccato ab origine: partono tutte da dati statistici, da qualcosa che è ben misurabile e valutabile. E come abbiamo detto più volte, quasi tutte le cose facilmente misurabili in un essere umano sono anche le meno ricche e le più superficiali. D’altra parte, il tipo di individuo che oggi ottiene risultati positivi nei questionari di valutazione scolastica non lo definiremmo intelligente e/o sensibile, ma piuttosto integrato e conforme al modello produttivistico dominante. Modello dominante nelle alte sfere produttive, ma in via di sparizione nella sensibilità comune. Come mostrano proprio i dati che Vertecchi analizza con tanto allarmismo. Chissà come reagirebbe il noto docimologo se si accorgesse che stanno emergendo nuove abilità nelle ultime generazioni, tra cui quella di operare analogicamente, simultaneamente, sinesteticamente, comunitariamente e che queste abilità aprono nuove possibilità di organizzazione dell’esistenza e dell’esistente. Vivere più organicamente e meno meccanicamente, ad esempio. L'immersione al posto della costrizione/misurazione. Rifiutare l’isolamento individualistico scolastico, freddo ed efficientistico, preferendo il coinvolgimento in vivi contesti di apprendimento neotribali e informali, ma non per questo “volgari”. Volgare resta – e non c’è nulla di provocatorio in questa affermazione - il tentativo di plasmare con forza il mondo a propria immagine, soprattutto quando quell’immagine è da tempo superata (e per fortuna, aggiungiamo noi). D’altra parte quando si è ormai lontanissimi dal sentire il fluire della vita, si può finire anche con il proporre soluzioni davvero sconcertanti come la seguente di Vertecchi:
Essenziale in questa prospettiva è un forte incremento della presenza della scuola nell’organizzazione della vita di bambini e ragazzi: si tenga conto che i risultati migliori sono quelli che si ottengono nei sistemi scolastici che operano su tempi distesi e impegnano una parte più consistente del tempo degli allievi.
Come a dire: questo mondo non ci piace come sta andando a finire, cerchiamo di curarlo con un po’ di scolarizzazione in più e dopo questa bella terapia tutto andrà a posto. Invece di lasciar fluire piacevolmente  e naturalmente l'apprendimento nella vita quotidiana, si tenta di rinchiuderlo a forza nelle mura scolastiche. Un tentativo che, se non fosse patetico e destinato a rapida sconfitta, dovrebbe essere guardato con pericolosità perché violento e autoritario. Ci si rende conto che la scuola non riesce più a produrre individui come desideriamo, e come cura cosa si propone? Più scuola. Aumentare le dosi del farmaco, perché il paziente non risponde più alla terapia.
Siamo di fronte ad una visione del mondo che, per fortuna, si delegittima nello stesso momento in cui tenta disperatamente di imporsi. Se chi fa l’apologia del calcolo e della razionalità, non è più capace delle osservazioni più elementari, possiamo dire ancora una volta che non vediamo altra soluzione alla crisi della scuola che non sia la descolarizzazione. Processo per altro già in atto naturalmente, ma che le istituzioni fanno finta da tempo di non vedere per non ammettere di dover ripensare completamente uno dei pilastri della modernità: la scuola appunto, l’unica cosa - ahimè - che resta davvero volgare a questo mondo.

Antonio Saccoccio

venerdì 22 febbraio 2013

L’addestramento scolastico contemporaneo: produzione e misurazione


La malattia da cui è affetta la scuola è talmente strutturale e radicata nelle menti di noi individui civilizzati (anche e soprattutto di quelli che si credono più intelligenti e colti), che è indispensabile offrire indicazioni chiare e nette a chi vuole ancora (provare a) salvarsi.
La scuola è la struttura che permette di costruire e mantenere in piedi l'attuale miserabile organizzazione sociale. Qualcuno ritiene che siano i media a trasformarci in macchine da produzione e consumo. Questo è vero solo in parte. I pericoli maggiori non arrivano dalla televisione, dalla radio, o dal web. Arrivano dalla scuola. Perchè il tipo di individui che negli ultimi decenni ha dato (e oggi ancora dà, si spera ancora per poco) la direzione al nostro modo di vivere non è quello che passa la vita guardando la televisione o navigando in rete, ma quello che sgobba ore e ore ogni giorno per "andare bene" a scuola. La scuola è la vera causa del produttivismo/efficientismo/consumismo contemporaneo, non i media, neppure quelli di massa come la televisione. Ore e ore di televisione possono creare uomini-consumatori passivi annichiliti e inebetiti dagli spot pubblicitari, dalle fiction e dai reality, uomini che occupano posti subordinati nella scala sociale e non avranno quindi mai la possibilità di cambiare il mondo. Ma ore e ore di perfetti adempimenti scolastici creano uomini-produttori-consumatori attivi e rigorosi, quegli uomini che decidono (“non decidono”, sarebbe forse il caso di dire) ogni giorno che bisogna continuare a vivere in questo modo penosissimo e che non è necessario alcun cambiamento di rotta.
Il potere (la responsabilità!) di conservare la condizione presente ce l'ha la scuola, perchè è la scuola che per prima ha il compito, in questo mondo così organizzato, di iniziare a stabilire chi in futuro avrà il potere e chi non lo avrà. E qui iniziano i problemi e gli interrogativi. Come si fa a sapere chi potrà avere il potere e chi no? Qualcuno risponderà: occorre misurare in qualche modo i livelli raggiunti dagli individui. Ma come si fa a misurarli? Qualcuno risponderà: cercando di trovare metri di misurazione. E quali sono questi metri? Qualcuno risponderà di sapere quali sono. E inizierà ad applicarli. Poi si accorgerà che la misurazione non va ancora bene, e allora cambierà. E cambierà poi di nuovo. E ancora e ancora. Fino a quando sarà soddisfatto perché avrà trovato il modo giusto per misurare perfettamente i ragazzi e le ragazze. Tutto perfetto quindi? Tutto perfettamente sbagliato, direi. C’è un grande problema che questi professionisti del calcolo e della misurazione non considerano: la gran parte delle cose misurabili in un essere umano sono le più superficiali, le più inutili, e per giunta le più falsificabili. Ma questo non è importante per costoro, l’importante è illudersi di avere per le mani qualcosa di facilmente controllabile e misurabile. Nelle nostre scuole la semplicità viene costantemente deviata verso la complicazione, mentre la complessità è trattata con semplicismo. Ed è così che per un giovane non ci può essere spazio, a scuola, per una libera personalissima lettura di un libro che lo ha incuriosito ed esaltato, non c’è spazio per una riflessione e/o libero dialogo sull'alienazione, sulla poesia, sulla morte, sull'humanitas, sulla fede, sulla sessualità, sulla retorica e il linguaggio, sul modernismo, sul femminismo, sul relativismo, sul superomismo e persino su tutti i presunti vizi e tutte le presunte virtù dell'uomo e della donna. Una riflessione nata da un verso di un poeta latino o di un filosofo contemporaneo. Roba letta per caso da un libro aperto in un momento di noia. O da una pagina web aperta solo per sbaglio. Uno spunto qualsiasi che ci porta a un momento di vita autentica, a pensare realmente in autonomia e per il puro piacere di farlo. Una riflessione che può dirci  tantissimo di un individuo, ci può svelare la sua anima persino, i suoi dubbi e paure, le sue speranze e le sue passioni. “Ma via! codesta roba non è misurabile! è immondizia! Noi abbiamo il compito di misurare. Abbiamo persino costruito delle tabelle, delle "griglie" per costringere questi ragazzi a farsi misurare per bene”. Ecco quindi che tutti gli obiettivi della scuola tendono a questa misurazione finale. Non c’è spazio per altro nella testa dei giovani: “Sarò misurato, dovrò avere misurazioni alte”, “Se ottengo misure alte, valgodi più”. È questa esattamente la causa della desertificazione umana presente nel mondo, che nasce e viene ufficializzata nelle nostre scuole.
I primi a diventare disumani sono proprio gli insegnanti, costretti - senza rendersene conto - a diventare meccanici misuratori invece di brillanti appassionati e appassionanti guide nel percorso di crescita di chi è più giovane di loro. È piuttosto normale poi che il virus produttivistico transiti dagli insegnanti agli allievi, che difficilmente si rendono conto della deformazione del sistema. Chi istintivamente si ribella perché ha mantenuto un po’ di naturalissima tendenza alla libera espressione della propria personalità, viene costretto a fare marcia indietro, trattato come un appestato, un barbaro, un incivile. Normalmente si sente dire che quel determinato alunno non è “scolarizzato”. In pratica non risponde ancora ai criteri di produzione scolastica, non è stato ancora inscatolato, non si è ancora lasciato mettere nel barattolino pronto per la consumazione. Sono rarissimi i giovani, soprattutto nei licei, che riescono a superare i cinque anni senza essere normalizzati, ridotti alla paralisi intellettuale morale emozionale, ricondotti allo standard medio dell’uomo-massa. Il trattamento di continua produzione e misurazione lascia pochi superstiti. Probabilmente al termine del quinquennio liceale sono salvi il 2-3% dei giovani, forse anche meno. Che è poi la stessa percentuale degli insegnanti che sono consapevoli di queste storture e che lottano per non far perdere agli allievi la loro residua umanità. Nelle nostre scuole non ci si può occupare di ciò che piace, che appassiona, che serve alla crescita di un individuo. Nelle nostre scuole si finisce per studiare solo tutto ciò che può essere misurabile, numero di esercizi svolti, numero di pagine studiate, numero di esercizi corretti, numero di informazioni lette sul libro e ripetute correttamente. Da un trattamento simile non può che uscire un bravo imbecille, un servo rispettoso, un faticatore infelice, un uomo-macchina. Perché è la macchina ad essere progettata per rispondere a compiti esattamente standardizzati, normalizzati, tutti misurabilissimi. On off, uno zero, aperto chiuso, giusto sbagliato.
Non ci lamentiamo, quindi, se oggi ci ritroviamo in un mondo di automi privi di intensità emotiva, perché li costruiamo noi questi automi, educandoli a svolgere sin dall’infanzia compiti meccanici, ripetitivi e misurabili. Non mi scandalizzo affatto nel vedere ogni giorno decine di migliaia di uomini ricchissimi e potentissimi fregarsene di decine di milioni che crepano. Questo atteggiamento viene insegnato a bambini e ragazzi nelle nostre scuole, e si cela dietro parole come “efficienza”, “meritocrazia”, “produzione”, “valutazione”. Sono le stesse belle parole che sentiamo proclamare ogni giorno dagli uomini di potere di tutto il mondo civilizzato.
Antonio Saccoccio