venerdì 25 febbraio 2011

La scuola noiosa. Un modello da combattere.

Avevamo letto qua e là dell'ennesimo libello scritto da insegnanti frustrate e totalmente incapaci di decifrare la realtà contemporanea. Non ne avevamo parlato perchè siamo ben consapevoli che criticare queste pubblicazioni significa in qualche modo dare alle stesse una qualche credibilità. Non sprechiamo del tempo per criticare ciò che è irrilevante, ciò che fa parte della palude culturale. Eppure, oggi quel libello arriva sulla prima pagina del Corriere della Sera. Centinaia di migliaia di poveri lettori italiani avranno letto l'articolo di Cesare Segre (illustre filologo e critico letterario), in cui elogia (sic) il libro di Paola Mastrocola (è lei l'autrice dell'ultimo disperato delirio in favore della scuola perduta). E allora dobbiamo finalmente parlarne. Perchè il pericolo, nel nostro Paese, di una deriva autoritaria, di una completa restaurazione di un pensiero gerarchico e fascistissimo non è da sottovalutare. Intendiamoci, il problema si pone per i prossimi 5-10 anni, perchè già tra 20 anni di questo ennesimo patetico libello non resterà ovviamente nulla, e delle parole di Segre ci si potrà far beffe. Tra 20 anni di tutta questa faccenda resterà soltanto questo nostro articolo, come è ovvio e giusto che sia.
Fino a quando tanta gente si informerà sulle grande testate nazionali e sui pochi grandi canali televisivi nazionali, dovremo fare molta attenzione. Fra qualche decennio, quando sarà ultimato il processo di decentralizzazione e degerarchizzazione del potere mediale, allora non dovremo neppure sprecare questi minuti per contrastare articoli senza idee come questi, che finiranno immediatamente nell'indifferenza più totale.
Il titolo dell'articolo di commento di Segre è tutto un programma: "La scuola facile. Un modello che non va". Dobbiamo essere sinceri. In noi avanguardisti è presente anche un gran godimento nel leggere la frustrazione di questi professoroni, che annaspano in quel tempio della Cultura che credono in qualche modo ancora di tenere in piedi con la loro autorità. Ma la realtà è ancora ben altra. Sui quotidiani nazionali non fanno certo scrivere chi è in grado di percepire e decifare la sensibilità contemporanea. Fanno scrivere chi è in linea con la sensibilità del nostro dopoguerra (prima del boom, sia chiaro!).
Com'è possibile che un professore universitario come Segre possa lodare idee tanto decrepite e pericolose? La risposta è molto probabilmente una sola: Segre è un filologo.
Ma ascoltiamo le sue parole:
Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Gianni Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo, svalutando il concetto di nozione come conoscenza, e, in generale, il tipo di conoscenze che sono di solito oggetto di studio. Di qui l' avversione per il sapere letterario (guai al povero Virgilio!) e in particolare linguistico, considerati appannaggio dei ricchi. E anche la valorizzazione del territorio, la chiusura nella provincia e nei lavori contadini: non pensando che questo bloccava qualunque aspirazione al miglioramento mentale, ma anche economico degli scolari.
Ecco. Il filologo ritira puntualmente fuori la rivalutazione del nozionismo. Possiamo sorridere quanto ci pare. Ma questo è il livello del dibattito sulla scuola nel 2011 sul nostro principale quotidiano nazionale. Ritirare fuori la questione del nozionismo ci pone fuori dalla storia, fuori dal mondo, fuori dalla realtà. Il nozionismo scolastico è la causa di tutti i mali (quasi, ma lo aggiungiamo poco convinti) della società contemporanea. Che il nozionismo sia portatore di superficialità, vanità, disimpegno, morte non è per fortuna più argomento di discussione, neppure al bar dello sport. Su queste pagine si discute se tutta la scuola, anche quella meno stupidamente nozionistica e più autenticamente libertaria, sia da cancellare. Di questo si dovrebbe discutere anche sulla prima pagina del Corriere della Sera.
Noi dobbiamo impegnare le nostre forze per cancellare questa idea di vita asservita alle istituzioni più autoritarie (la scuola) e ai valori più dannosi (lo studio, la disciplina). La vita non può essere al servizio della scuola. Forse potrebbe essere accettata una scuola al servizio della vita. Molto più probabilmente la scuola non ha alcun motivo di esistere.
Il problema è che di tutto questo Segre non si preoccupa minimamente. Forse l'obiettivo della scuola dovrebbe essere creare filologi come lui, capaci di insegnare nelle più prestigiose università e di pubblicare studi critici sulle lezioni varianti nei testi letterari, ma incapaci della minima osservazione critica sulla realtà contemporanea?
Ecco. E' questo il punto. Noi non vogliamo essere filologi. Noi vogliamo essere uomini a mille dimensioni. O meglio: vogliamo essere anche filologi, ma prima ancora uomini a mille dimensioni.
E poi, inserire in un'accozzaglia di tòpoi tanto ammuffiti il freschissimo nome di Don Milani. Per favore, occupatevi di altro. Lasciate stare Don Milani, che veleggia alto su territori che non potete neppure sfiorare da lontano.

Ma leggiamo ancora Segre:
Era inevitabile che in questa cultura «facile» fossero affossati gli studi considerati «noiosi», o quelli che sembrassero privi di utilità pratica immediata.
Ecco il punto decisivo. Occorre annoiarsi, altrimenti non si sta studiando! Eppure io non ricordo mai di aver appreso qualcosa annoiandomi. Quando amo ciò che leggo, non ho assolutamente l'impressione che sia noioso o faticoso. Persino l'articolo di Segre, noiosissimo in sè, non mi annoia. Mi diverte.
E divertiamoci ancora.
Qui la Mastrocola mostra bene, con opportuni riferimenti, che si è affermata una nuova pedagogia, che favorisce «la scuola del fare, del saper essere, del saper stare (insieme), dello smanettamento collettivo e dell' invasamento tecnologico, non certo la scuola del sapere, delle nozioni (intese come conoscenze), della letteratura e dello studio astratto, teoretico».
Difficilmente si può avere la fortuna di leggere un condensato simile di passatismo. La confusione di queste parole è sicuramente sintomatica della frustrazione di chi le ha partorite. Il procedimento mentale che può portare a mettere insieme il fare, il saper essere, il saper stare insieme (obiettivi altissimi) con lo smanettamento collettivo e l'invasamento tecnologico (qualsiasi cosa significhino queste espressioni nel cervello degli autori) è patologico. Sembra di sentire il lamento disperato dell'ultimo degli schiavisti prima che i liberatori facciamo giustizia dei loro misfatti.
Ma si percepisce anche, e molto chiaramente, l'enorme frustrazione, in quell'aggettivo-spia "tecnologico", che messo lì in mezzo tanto a sproposito finisce per smascherare intenzioni puramente reazionarie.

E infati il finale, sempre all'insegna dell'anti-tecnologismo più sciatto e ignorante, è letteralmente memorabile. Un finale che vorrebbe essere epico. E non fa che divertirci ancora di più.
Difficile indicare rimedi alla situazione messa in luce dall' autrice. Occorre un nuovo cambio di mentalità, che rimetta al centro dell' insegnamento lo studio, e che annulli l' insensato asservimento del sapere umanistico a quello tecnologico. Per ora, la Mastrocola dovrà rassegnarsi ad essere considerata una reazionaria. Ma questo è forse uno dei pochi casi in cui solo la reazione può difendere ideali e principi vitali prima che vengano definitivamente cancellati.
"Insensato asservimento del sapere umanistico a quello tecnologico". Chissà se Segre si rende conto che grazie a tecnologie può fare il suo altissimo mestiere di filologo. E chissà se si rende conto che grazie ancora ad altre tecnologie può scrivere fesserie del genere ed essere letto da centinaia di migliaia di persone, prima su carta, poi su schermo. Ancora una volta l'uomo dimezzato, scisso, dissociato del Novecento si presenta ai nostri occhi: ancora una volta dobbiamo sentirci fare la morale con la contrapposizione tra sapere umanistico a quello tecnologico. E' un mondo finito quello di cui parla Segre. L'uomo ad una dimensione che non ci sarà più per fortuna. Non ci sarà più perchè la scuola che vogliono quelli come lui, la scuola che ci ha fatto studiare 30 canti della Commedia dantesca e non ci ha fatto realmente riflettere su nessuno di quei canti, la scuola in cui si studia e si impara ad annoiarsi, quella scuola è finita.
Continuare poi a difendere la scuola della morte in nome di "ideali e principi vitali" (quali sarebbero? lo studio? la noia? la fatica? la disciplina?) è comico. La vita è un'altra cosa. La vita è piacere. La vita è entusiasmo. La vita è libertà.
Andrà avanti forse per qualche anno questa scuola noiosissima, grazie agli sforzi eroici di libellisti di quart'ordine e filologi fuori dal mondo. Ma i giochi sono ormai fatti. Nel mondo che vogliamo non solo non esisteranno gli studi noiosi. Ma non esisterà - e di questo non meravigliatevi troppo - neppure la parola "studio".

Antonio Saccoccio

venerdì 11 febbraio 2011

"Se studierai bene, poi ti darò un dolce!": Carlo Michelstaedter e la sua critica all'educazione e alla scuola

Carlo Michelstaedter è una di quelle figure che dobbiamo rimpiangere. Dobbiamo rimpiangere soprattutto la sua morte prematura, quel colpo di rivoltella con cui si tolse la vita a soli 23 anni. Pochi giorni dopo la morte, Giovanni Papini scrisse che si era suicidato per "accettare sino all’ultimo onestamente e virilmente le conseguenze delle sue idee".
Le sue tesi sulla retorica e la persuasione sono ancora oggi ricche di ottimi spunti critici. E le pagine che sentiamo più vive sono proprio quelle dedicate alla critica della scuola e dell'educazione. Ripercorriamo quelle pagine, tratte da "La Persuasione e la Rettorica" (1910), che fu - badate bene! - la sua tesi di laurea.

La peggior violenza si esercita così sui bambini sotto la maschera dell’affetto e dell’educazione civile. Poiché colla promessa di premi e la minaccia dei castighi che speculano sulla loro debolezza e colle carezze e i timori che alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie in una famiglia civile: le quali come nemiche alla loro natura si devono appunto imporre colla violenza o colla corruzione. [...]
«Tu sarai un bravo ragazzo come quelli che vedi là andare alla scuola, sarai come un grande». Gli si forma il mito di questo bravo scolaro grande, e ogni cosa appartenente allo studio, alla scuola acquista un dolce sapore: l’andare a scuola, la borsa per i libri ecc. E si forma la gerarchia dei valori in rapporto alla superiorità della classe: «Se sarai bravo, il prossimo anno, non scriverai più sulla lavagna, ma in quaderno!» e con l’inchiostro!». Tutti approfittano di quest’anima in provvisorio che sogna «il tempo quando sarà grande», per violentarla, «incamiciarla», ammanettarla, metterla in via assieme agli altri a occupare quel dato posto, e respirar quella data aria sulla gran via polverosa della civiltà.
Occorre riflettere attentamente - lo abbiamo detto più volte - su questa idea del "mito della scuola". Michelstaedter giustamente parla del "mito" del bravo scolaro. E' proprio facendo forza su questo mito che si può violentare e ingabbiare i bambini, i ragazzi.
Ma il giovane filosofo goriziano va anche oltre questa constatazione. La dissociazione tra piacere e dovere è un altro aspetto fondamentale della questione. E anche questa parte con la scuola.

Fin dai primi doveri che gli si impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo indifferente a quello che fa, perché pur lo faccia secondo le regole con tutta oggettività. «Da una parte il dovere dall’altra il piacere». «Se studierai bene, poi ti darò un dolce – altrimenti non ti permetterò di giuocare». E il bambino è costretto a mettersi in capo quei dati segni della scrittura, quelle date notizie della storia, per poi avere il premio dolce al suo corpo.
«Hai studiato – adesso puoi giuocare!».
E il bambino s’abitua a considerar lo studio come un lavoro necessario per viver contenti, se anche in sé sia del tutto indifferente alla sua vita: ai dolci, al giuoco ecc. Così gli si impongono le determinate parole, i determinati luoghi comuni, i determinati giudizi, tutti i καλλωπίσματα della convenienza e della scienza, che per lui saranno sempre privi di significato in sé ed avranno sempre soltanto tutti quel costante senso: è necessario per poter avere il dolce, per poter giuocare in pace: la sufficienza e il calcolo.
Quando al dolce e al giuoco si sostituisca il guadagno, «la possibilità di vivere» –: «la carriera», «la via fatta», «le professioni» – lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei gusti, per mangiare, bere e dormire e prolificare.

L'indifferenza e l'alienazione di tutta una vita partono così da quel meccanismo terrificante che è la scuola e lo studio utilitaristico. La drammatica indifferenza verso ciò che si legge e si studia. Dante, Leopardi, Seneca e Platone trasformati in mezzi per ottenere il dolcetto, il premio, il successo. L'ammaestramento e l'indottrinamento a cui sono sottoposte le giovani menti, con tutte le convenzioni sociali e i luoghi comuni mascherati da alti pensieri: tutto ciò grazie all'istituzione scolastica.


Così ne potremo fare un degno braccio irresponsabile della società: Un giudice, che giudichi impassibile, tirando la proiezione dalla figura che l’istruttoria gli presenti sulle coordinate del suo codice, senza chiedersi se questo sia giusto o meno. Un maestro, che tenga 4 ore al giorno 80, 90 bambini chiusi in uno stanzone, li obblighi a star immobili, a ripetere ciò che egli dica, a studiare quelle date cose, lodandoli se studino e siano disciplinati, castigandoli se non studino e non s’adattino alla disciplina, – e non s’accorga d’esser un uomo che sta esercitando violenza sul suo simile, che ne porterà le conseguenze per tutta la vita, senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia – ma secondo il programma imposto. Un boia, che quando uccida un uomo non pensi, che egli, un uomo, uccide un suo simile, senza sapere perché l’uccida. Perché egli non veda mai altro in tutto ciò che quell’ufficio indifferente su cui non si discute ma che gli dà i mezzi per vivere, e sia istrumento inconsapevole. [...]


Come al bambino si diceva: «fai come dice il babbo che ne sa più di te, e non occorre che tu domandi ‘perché’, obbedisci e non ragionare, quando sarai grande capirai». Così si conforta il giovane a perseguire nel suo studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: «tu cooperi all’immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po’ anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno». Ma gli uomini temo che siano sì bene incamminati, che non verrà loro mai il capriccio di uscir della tranquilla e serena minore età.

L'arte della ripetizione meccanica, immobile e imbecille. L'arte dell'imbecille disciplina e dell'imbecillissima obbedienza. 
Carlo Michelstaedter: anno 1910.

Antonio Saccoccio

sabato 5 febbraio 2011

Chiudersi a riccio nella disciplina per non affrontare la complessità della realtà: ecco come gli insegnanti demoliscono i nostri giovani

Chi insegna in una scuola superiore italiana (soprattutto nei tradizionali licei) ha ben presente lo stato di totale inadeguatezza dell'istituzione. L'impressione è quella di una struttura dannosa che genera nella quasi totalità dei casi noia, frustrazione, competizione, perdita continua di tempo, atteggiamenti servili e/o utilitaristici. Ha affrontato il tema Nicola Ruganti, in un buon articolo sul numero 2 de "Gli Asini", rivista di educazione e intervento sociale. Ruganti ha iniziato con un'affermazione decisa e incontestabile:
Si può parlare solo in termini esasperati della scuola media superiore, perchè è la nitida fotografia del disastro economico e pedagogico del presente.
E poco più in basso immediatamente centra il punto:
Didattica e realtà hanno preso due strade diverse. Gli insegnanti si chiudono a riccio sulla disciplina e nell'altra parte del loro lavoro sono approssimativi: non sanno suggerire nessuna prospettiva su come affrontare il presente.
Lo ribadiamo da tempo: gli insegnanti italiani sono quasi sempre individui estranei alla vita, estranei alla realtà contemporanea. Non sono in grado di fornire una guida ai giovani, non sono in grado di renderli autonomi, non sono in grado di condurli verso l'auto-orientamento. E non sono in grado, perchè anche loro sono incapaci di orientarsi e di essere autonomi. La scuola di oggi è un ambiente morto, in cui si parla quasi sempre di morti e cose morte.
"L'insegnante chiuso a riccio nella disciplina" è lo specchio fedele di una realtà mortificante. In un mondo di una complessità devastante, è inimmaginabile pensare che il ruolo dell'insegnante sia ancora quello di alfabetizzare con norme e regolette di grammatica o matematica. Eppure abbiamo formato per decenni solo docenti di questo tipo. Docenti per cui insegnare è ripetere quotidianamente quattro nozioncine di letteratura, scienze, storia o filosofia che oggi si trovano (spesso anche più approfondite) su wikipedia. Docenti per cui insegnare significa mettere in fila quattro numeri incoerenti su una (apparentemente) elaboratissima ma (in realtà) imbecillissima griglia di valutazione.
E' evidente: la scuola svuotata di significato reale si rifugia nella norma rigida. Vede ancora bene Rinaldi:
Didattica muta e conoscenze spesso superficiali generano la necessità di obblighi. Eccone un esempio: si possono fare massimo cinquanta giorni di assenza (che non sono pochi!) e oltre si boccia.
Lo sfascio totale, quindi. Senza possibilità di redenzione.
Eppure, in attesa di tempi migliori (la descolarizzazione è il punto di arrivo, non dimentichiamolo mai), si possono tentare soluzioni avventurose.

a. Si dovrebbe dare enorme spazio ai singoli istituti, perchè se è vero che non si può curare una pianta malata dalle radici, è possibile provare con qualche innesto di fortuna. E in questo caso due sono le possibilità:
  1. Singole scuole che si prendono il massimo dell'autonomia dallo Stato centrale per sperimentare una scuola libera e libertaria. Per Ruganti "bisognerebbe spronare tentativi regionali di scuole, meritevoli e militanti, che scelgano di ritagliarsi un'autonomia didattica, economica e territoriale: potrebbe essere un'ultima scialuppa in questa bonaccia ad alta tensione".
  2. All'interno degli istituti, gruppi di insegnanti dovrebbero allearsi e auto-organizzarsi, provando così a salvare alcuni corsi o alcune classi, adottando una didattica della complessità, anti-autoritaria, anti-normativa.
b. Si dovrebbe puntare sui giovani, che hanno la chiara percezione dell'inutilità della scuola e non butterebbero mai il loro tempo studiando argomenti inutili. Osserva ancora Ruganti: "Meno male che ci sono i ragazzi che hanno una grande confidenza con il loro tempo e sono agili e ancora simpatici, che siano immersi in una trivellazione ossessiva del web o che abbiano istanze di indagine sulle esperienze concrete".

L'ultimo invito di Ruganti è a disobbedire. E anche su questo non possiamo che essere con lui. "Il compito del singolo insegnante... è quello di non seguire le mode delle riforme e/o le novità nei programmi".
Per chi è nella scuola disobbedire significa iniziare a descolarizzare dall'interno. Significa portare le idee libertarie all'interno della scuola-carcere, le idee della vita all'interno della scuola-loculo contemporanea.

Antonio Saccoccio