domenica 30 gennaio 2011

Miguel Benasayag, Angelique Del Rey, l'elogio del conflitto e la scuola

Miguel Benasayag è certamente un'intelligenza acuta e vivace. Ma ciò che ci piace maggiormente è che la sua è un'intelligenza militante, che combatte per una visione del mondo. Benasayag è un filosofo, ma non è un filosofo che se ne sta seduto dietro la sua cattedra, è un filosofo che è sceso e scende ancora in campo concretamente, incidendo nella realtà di ogni giorno (militante guevarista, dieci anni di carcere alle spalle). Il suo testo più noto è probabilmente Elogio del conflitto, in cui ha sostenuto con radicalità che la società postmoderna ha di fatto bandito ogni idea di conflittualità. Comprendere l'importanza della componente conflittuale in un mondo che di fatto cerca di annullare ogni tentativo di porsi in opposizione del sistema (o dei sistemi) di valori dominanti, non è da tutti. Viviamo momenti in cui parlare di "conflitti" sembra essere sempre politicamente scorretto. E senza conflitto non ci può essere superamento, senza conflitto c'è il trionfo dello status quo.
Qualche giorno fa, in un intervento all'Università La Sapienza di Roma, (l'occasione era un convegno dell'ADI) Benasayag ha colto tutti di sorpresa, riducendo in cenere la pedagogia delle competenze e il costruttivismo, tanto in voga negli ultimi decenni nella pedagogia contemporanea. Scuola delle competenze e costruttivismo sono figli dell'utilitarismo contemporaneo, della deriva economicistica e producono deterritorializzazione e alienazione. Sconcerto, sbandamento, frustrazione in sala: la didattica per competenze e il costruttivismo in un'oretta scarsa passano da salvezza a rovina della scuola. Il nemico non sono più il trasmissivismo e l'accumulo di conoscenze, ma il costruttivismo e la didattica per competenze. Il filosofo riesce a convincere larga parte dell'uditorio, ma non sfugge ai più attenti un uso "ad una dimensione" dei termini "competenze" e "costruttivismo", termini sicuramente sfuggenti e non da ora. Se è indubbio, infatti, che se pensati da uomini di scarso spessore i due termini sono realmente frutto di una visione tecnicamente utilitaristica e quindi poverissima della scuola (ma il discorso è noto da tempo agli spiriti illuminati, non ci vogliono certo filosofi per portarlo alla luce), non si può non notare che in altro modo la competenza e il costruttivismo possono esserei modi per liberare almeno parzialmente lo studente dall'autoritarismo, dal valutazionismo, dal rigidismo della scuola-dinosauro contemporanea. Insomma, Benasayag si scaglia (e conoscendo le sue posizioni ideologiche è comprensibile) contro competenze e costruttivismo viste come trattamento educativo dell'"uomo economico".
In realtà per noi il problema reale non è la scelta tra trasmissione o costruzione del sapere. Il problema è l'istituzione scuola concepita come luogo in cui produrre uomini regolarmente monodimensionali, i cui apprendimenti siano perfettamente misurabili per essere inseriti nella catena di montaggio dell'alienazione planetaria.
Benasayag non è un pedagogista, ma lo è la sua collaboratrice più stretta, Angelique Del Rey, che ha chiarito in un suo documento:
Una tale visione (quella del PISA e dell'approccio per competenze) definisce l'immagine di un uomo da educare, ripiegato su se stesso all'interno della nozione di competenza e ci spiega la svolta delle pedagogie attive verso il profitto e l'efficienza. L'uomo da educare è un "uomo senza qualità", sul quale applicare le competenze per il successo nella vita, tralasciando desideri, affinità elettive, tropismi e qualità intrinseche, sostituiti ad un'educazione emancipatrice che permette allo studente di essere attivo e di educarsi mentre viene educato. Si tratta di un'educazione alienante, che gli impone non solo dei contenuti e dei comportamenti normativi, ma che pretende che questi vi aderisca liberamente!
Alla luce di tutto questo, l'insegnante si chiede "Cosa devo fare allora? Se il trasmissivismo è inutile e dannoso e il costruttivismo è figlio dell'utilitarismo economicistico, cosa devo insegnare?".
La risposta sarebbe chiara, ma nessuno vuole farci i conti. Il problema è una scuola che vuole ridurre le differenze, non tenere in considerazione e rispettare le singole qualità, misurare ciò che sa e sa fare un ragazzo come fosse un animale da allevamento e produzione. Ecco che allora può davvero tornare utile (e al di là delle sue intenzioni) l'elogio del conflitto di Benasayag: la scuola non deve ridurre i conflitti, non deve normalizzare chi è differente, perchè eliminando le possibilità di conflitto si elimina la possibilità di produrre soluzioni alternative al sistema dominante.
E' chiaro che le pedagogie attive sono più evolute rispetto alle pedagogie passive, ma è altrettanto chiaro che le pedagogie realmente attive devono essere pedagogie libertarie, devono essere in pochi termini delle anti-pedagogie. E inoltre: non si può pretendere ad un insegnante che è servo e servile dentro di educare i giovani alla libertà. Non ci sarà nessuna teoria pedagogica in grado di rendere libero chi è abituato da sempre ad ubbidire e abbassare la testa.
Il problema non è quindi la scuola delle competenze. Il problema è la scuola come istituzione repressiva, autoritaria e reazionaria.
E allora - torniamo - cosa può fare un insegnante? L'abbiamo detto più volte e da tempo: autonomia creativa (perchè non può esistere educazione senza educazione all'autonomia), costruttivismo critico (che è altra cosa rispetto al costruttivismo modaiolo), scuola-vita.
Descolarizzare operando dentro il sistema non è possibile, ma è almeno nostro dovere sabotare in ogni modo la scolarizzazione e l'inebetimento di massa.

Antonio Saccoccio

lunedì 24 gennaio 2011

Giorgio Manganelli, Umberto Eco e le tesi di laurea

La nostra scuola e il nostro sistema educativo vive di riti. Uno di questi riti è la tesi di laurea. Sull'inutilità di tale lavoro lasciamo volentieri parlare Giorgio Manganelli, che fu professore e professore universitario (ma anche scrittore d'avanguardia) e in un solo colpo (uno dei suoi micidiali corsivi) polverizzò le tesi di laurea e ironizzò acutamente sul fortunatissimo libro di Umberto Eco "Come si fa una tesi di laurea".

Ecco Manganelli, nel 1977.

Umberto Eco ha scritto un libro estremamente gradevole, divertente, lucido; un po’ manageriale, da manager giovane e aggressivo, cui piacciono le cose ben fatte. Il libro insegna come si fa una tesi di laurea; ed è talmente accattivante, da far venir gola di laurearsi da capo. A mio avviso, bisogna resistere. Eco ha un suo modo di sussurrare, raccontare, inventare le vie, le virtuose trame che consentono di scrivere una tesi che, a negargli ascolto, ci vuole protervia. L’avessi incontrato, un libro così fatto, nella mia giovinezza, avrei imparato a fare cose che non saprò mai fare. Ad esempio, le note a piè di pagina. Troppo tardi: incapace di frequentare metodicamente le biblioteche nostrane, di compilare schede, di catalogare argomenti, di redigere note, ho dovuto ridurmi a fare il genio. Miserabile fine, per chi era nato per gli studi. Ma, in questo modo, mi sono esentato da tutto ciò che non so fare, che è, appunto, tutto.

Tuttavia, il motivo per cui bisogna resistere, con la stessa fermezza con cui si respingono i volantini intitolati a “un mondo migliore”, è che, a mio avviso, è giunto il momento di non far più tesi di laurea, di espellere questa cerimonia da quel che resta delle nostre facoltà. È vero: detesto le tesi di laurea, deploro le ore che ho passato a leggerle, a seguirle, a farne relazione; non credo che, nella facoltà in cui lavoravo, nessuno abbia mai imparato nulla dalla tesi di laurea, eccetto che le strade dell’umiliazione e dell’astuzia sono infinite. [...] La tesi di laurea generalizzata è, comunque, in precipitosa decadenza, come è in decadenza l’esame di maturità. Quanti “dottori” sono laureati, si laureano, con tesi comprate già fatte, fatte su commissione, come gli uxoricidi, con tesi riciclate? E la tesi “di compilazione”, fatta con colla e fotocopie, sarà poi una straordinaria esperienza intellettuale? Non credo che tutto ciò dimostri che i laureandi sono tendenzialmente delinquenti o sciocchi: non occorre creare una polizia universitaria, né inaugurare una psichiatria dei laureandi. Io credo che sia ormai diffusa la convinzione che l’esperienza di scrivere una tesi, di mettere assieme una ricerca di seconda, terza mano, sia del tutto periferica, una bizzarria cui bisogna acconciarsi, perché ad un certo momento dall’università bisogna pure venire fuori.

Libro tecnico e manageriale, quindi, quello di Eco. Niente di più. Un testo che può essere utile ma molto di più è utile a tutti noi la raccomandazione di Manganelli: occorre eliminare questa pratica inutile dai nostri corsi di studi. I giovani trovano scorciatoie per la stesura della tesi (tesi su commissione), ma non perchè sono delinquenti, ma perchè hanno capito che devono riuscire ad aggirare il sistema in qualche modo e riuscire a mettere i piedi fuori dall'università. Stesso discorso si può fare per i ragazzi che trovano scappatoie per uscire dalle scuole secondarie. Non sempre sono le scorciatoie migliori. Spesso si potrebbero trovare vie d'uscita più interessanti (e divertenti). Ecco, forse i professori alla Manganelli potrebbero insegnare ai ragazzi la via per uscire nel migliore dei modi dalla scuola e dall'università. Sempre aspettando che qualcosa cambi finalmente. E radicalmente.

Antonio Saccoccio

sabato 15 gennaio 2011

La scuola-carcere: dal futurismo al situazionismo

L'assunto centrale di Giovanni Papini, nel suo Chiudiamo le scuole del 1914, era che la scuola non potesse insegnare nulla di buono, perchè rinchiudeva i ragazzi in un carcere in cui mancava la prima condizione per un sano apprendimento: la libertà.
Assai significativo è trovare, nell'incipit di un altro testo d'avanguardia contro la scuola (questa volta scritto alla fine del secolo scorso), la medesima metafora del carcere.
Si tratta dell'Avviso agli studenti di Raoul Vaneigem, scrittore e filosofo situazionista ancora vivente.
Leggiamo le prime due frasi di questo illuminante testo:
La scuola è stata, con la famiglia, la fabbrica, la caserma e accessoriamente l'ospedale e la prigione, il passaggio ineluttabile in cui la società mercantile piegava a suo vantaggio il destino degli esseri che si dicono umani.

Il governo che essa esercitava su nature ancora appassionate delle libertà dell'infanzia l'apparentava, infatti, a quei luoghi poco propizi alla realizzazione e alla felicità che furono - e che restano in diversa misura - il recinto familiare, l'officina o l'ufficio, l'istituzione militare, la clinica, le carceri.

Rileggiamo ora l'incipit di Papini:
Diffidiamo de' casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto - contro la morte - contro lo straniero - contro il disordine - contro la solitudine - contro tutto ciò che impaurisce l'uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine.
Sembra incredibile, a distanza di ben 80 anni, ritrovare gli stessi accostamenti (scuola-carcere-ospedale-caserma) in testi che si ripropongono obiettivi tanto simili. Eppure questo è significativo per definire lo stato di totale impaludamento dell'istituzione scolastica.
L'accusa del futurista Papini, elaborata nei primi decenni del Novecento, si sposa con quella del situazionista Vaneigem, diffusa nell'ultimo decennio del secolo.
La cultura d'avanguardia ha sempre sferrato i suoi attacchi contro la scuola in modo perentorio. La scuola è il primo freno per qualsiasi tentativo di innovazione.

Leggiamo ancora Vaneigem:
La scuola ha forse perso il carattere ributtante che presentava nel XIX e XX secolo, quando rompeva gli spiriti e i corpi alle dure realtà del rendimento e della servitù, facendosi gloria di educare per dovere, autorità e austerità, non per piacere e per passione? Niente è meno certo, e non si potrà negare che sotto l'apparente sollecitudine della modernità, numerosi arcaismi continuano a scandire la vita di studentesse e studenti.

L'impresa scolastica non ha forse obbedito fino ad oggi a una preoccupazione dominante: migliorare le tecniche di ammaestramento affinché l'animale sia redditizio?

Ecco centrato lucidamente il bersaglio. La scuola educa con il dovere e l'autorità, invece di educare attraverso il piacere e la passione. Non ci sono giri di parole. Non c'è bisogno di argomentazioni sofisticate. La triste realtà è alla portata di tutti. La scuola compie un errore gravissimo attribuendo valore ai principi del dovere e dell'autorità, mentre demolisce integralmente la capacità di appassionarsi e di cercare piacere. Si ammaestra l'animale, non si lascia evolvere l'essere umano.
E allora la naturale conseguenza:
Nessun ragazzo supera la soglia di una scuola senza esporsi al rischio di perdersi: voglio dire di perdere questa vita esuberante, avida di conoscenze e di meraviglie, che sarebbe così esaltante nutrire, invece di sterilizzarla e farla disperare con il noioso lavoro del sapere astratto. Che terribile constatazione quegli sguardi così brillanti di colpo sbiaditi!

Chiunque abbia presente quegli sguardi vivaci trasformati dalla scuola in sguardi annoiati, demotivati, spenti, aggravati, non può non desiderare la fine della scuola. La scuola si configura oggi come la più grande imbecillità mai partorita dall'uomo. Miliardi di bambini e ragazzi costretti dalla stupidità statale a perdere ore e ore di vita e forse l'intera giovinezza nello sterilissimo studio scolastico.

Ecco quattro muri. Il consenso generale decide che, con ipocriti riguardi, vi saremo imprigionati, costretti, colpevolizzati, giudicati, onorati, puniti, umiliati, etichettati, manipolati, vezzeggiati, violentati, consolati, trattati come aborti che questuano aiuto e assistenza. Di che cosa vi lamentate? obbietteranno gli autori di leggi e decreti. Non è forse il modo migliore di iniziare i novellini alle regole immutabili che reggono il mondo e l'esistenza? Senza dubbio. Ma perché i giovani dovrebbero ancora accontentarsi di una società senza gioia e senza avvenire, che gli stessi adulti sopportano ormai rassegnati, con un'acrimonia e un malessere crescenti?

Una scuola dove la vita si annoia insegna solo la barbarie.

L'avanguardia lotterà sempre contro la scuola che mortifica la vita e l'autonomia individuale, contro la scuola maestra d'autoritarismo e servilismo.

Antonio Saccoccio