sabato 31 dicembre 2011

La scolarizzazione prima tappa del processo di adulterazione

Sin da bambini siamo aggrediti dall’adulta adulterazione. Uno dei passi fondamentali è costituito dal sistema educativo, che dall’asilo all’università, passo dopo passo, inocula nelle giovani leve il germe dell’adulterazione. In questi ambienti il giovane sa di dover apprendere ciò che si fa e ciò che non si fa, ciò che serve e ciò che non serve, cioè che è giusto e ciò che è sbagliato. Ebbene, in questi ambienti il giovane impara che tutto ciò che è desiderio, tutto ciò che è passione, tutto ciò che è emozione, sogno e visione, scherzo e gioco, tutto questo è negativo, tutto questo è da evitarsi come la peste, tutto questo è punibile, indecoroso e pericoloso. E cosa è invece encomiabile? Cosa dà diritto al premio? Il rispetto delle norme, il calcolo, l’utile, l’obbedienza, il rigore, la serietà, la disciplina. A scuola, per riassumere tutto questo retrivo armamentario, si usa di frequente un termine demenziale: “scolarizzazione”. Che per noi uomini e donne d’avanguardia sta a significare: rendere innocue le sane passioni giovanili, metterle fuorilegge ed educare al servilismo; per i passatisti e i presentisti si tratta invece di una sintesi mirabolante di rispetto, ubbidienza, ordine e disciplina. Che si apprenda a rispettare le regole utilitaristiche del mondo sfatto in cui sono immersi loro! Ecco cosa vogliono!
E usciti fuori dai contesti educativi? Nulla di troppo differente nel cosiddetto tempo libero. Si continua con le “attività militarizzate d’evasione”: sport, musica, danza, etc. Grevi istruttori di calcio e soffocanti docenti di danza: perfetti per gestire dei lager! Maestrini e maestrine di musica dalla bacchetta facile: ottimi in una teca dell’Ottocento!
Passano gli anni, e così il giovane, giunto all’età adulta, è ormai totalmente inoffensivo. Privato degli impulsi più vitali e generosi, non gli resterà che sviluppare al meglio la sua parte razionale e intellettuale (l’unica che gli adulti hanno da sempre incoraggiato e premiato). E sarà - si badi bene - una razionalità al servizio dell’utilitarismo più bieco. Quell’adulto saprà quindi gestire al meglio i suoi risparmi, ma difficilmente avrà un buon amico. Riuscirà a pagare meno tasse, ma si sposerà con la donna che detesta. Saprà fare carriera nel migliore dei modi, ma avrà bisogno di un animatore per divertirsi e svagarsi. Saprà scappare di fronte al pericolo, ma non rischierà mai nulla per aiutare chi è in difficoltà. Saprà bene come obbedire a chi ha più potere di lui, ma non saprà ribellarsi in alcun modo alle sue prepotenze.

tratto da "Antonio Saccoccio, I giovani non sono coglioni! Manifesto per la rivolta delle future generazioni"

venerdì 9 settembre 2011

Studenti come pecore e pappagalli: il metodo analitico-grammaticale nello studio del latino

Una delle assurdità più estreme della scuola italiana è senza dubbio lo studio del latino. Non che si studi il latino - sia chiaro sin da subito - ma che lo si studi nel modo in cui dalla fine dell'Ottocento si studia nelle nostre scuole. Stiamo parlando di quel metodo analitico-grammaticale che dovrebbe favorire nello studente l'insorgere miracoloso di non meglio precisate Capacità Logiche. Stiamo parlando, più realisticamente, di quel metodo che consiste in una serie più o meno finita di declinazioni, coniugazioni, regole, regolette e soprattutto tante tantissime eccezioni da ricordare e ripetere mnemonicamente. Per i grandi pensatori che diedero inizio nel secondo Ottocento a questo insensato studio il latino doveva essere una lingua che poteva essere appresa analizzandola (anzi vivisezionandola) prima di padroneggiarla. Anzi, secondo questi grandi pensatori la lingua si poteva padroneggiare solo dopo la vivisezione. Niente di così folle, se pensiamo che qualcuno ha creduto fino a qualche decennio fa di insegnare anche le lingue straniere contemporanee in questo modo. Salvo poi rendersi conto che gli unici che riuscivano realmente a parlarle erano coloro che si recavano appena per qualche mese nei paesi stranieri, mentre gli studenti che per anni avevano imparato tutte le regole grammaticali non sapevano intrattenere una conversazione per due soli minuti.
Ma per il latino la questione è ancora sospesa. Dato che ancora oggi la stragrande maggioranza degli insegnanti è convinta che si possa conoscere quella lingua a partire dalla ripetizione più o meno meccanica di casi e desinenze e regole e naturalmente tante tante tantissime eccezioni.
Certo, un passo avanti è stato fatto con il tempo. Almeno questo studio insensato oggi non si pratica più nella scuola media inferiore. Nell'ormai lontano 1977 con la legge n.348 l'insegnamento del latino fu abolito nelle scuole medie. In realtà non si era pienamente compreso che non era l'insegnamento del latino in sè ad essere errato, ma il modo in cui si insegnava. Già a quei tempi qualche mente illuminata accolse con un sospiro di sollievo quella scelta. Giorgio Manganelli sul Corriere della sera ne approfittò per ironizzare a suo modo dopo l'approvazione della legge.
In questi ultimi anni, abbiamo riascoltato tutte le vecchie sciocchezze che credevamo scomparse con la nostra adolescenza; quasi intenerivano, con un arcaico rosolio. Abbiamo sentito dire che il latino è "formativo", che "insegna a ragionare". Si è detto che il latino è il nostro fondamento "culturale". Par di sognare. Qualcuno si è strappato i capelli, perchè gli avevano detto che l'Italia, l'Europa, la galassia stavano in piedi solo per via di quelle cinque declinazioni studiate, compitate, recitate, cantilenate sui banchi di scuola. [...] Vorrei sommessamente dissentire: tutto può essere formativo, incluso araldica e strutturalismo, tutto eccetto che il latino che si insegnava nelle scuolette. La sua fucilazione è un puro e semplice atto di igiene mentale. Disinquinamento, disinfestazione, derattizzazione. "Quel" latino era una cosa mostruosa, roba da fantascienza.
Con questo acceso linguaggio d'avanguardia Manganelli liquidava per sempre lo studio cantilenato del latino. Disinquinamento, disinfestazione, derattizzazione.
Eravamo nel 1977. Cosa è accaduto dopo? Che lo studio insensato dalle scuole medie si è trasferito nelle scuole superiori. Licei classici e scientifici sono da decenni in preda al più incredibile degli psittacismi. Da rosa rosae a iter itineris, da videor ai pluralia tantum, da doceo e celo a marmaluot! E tutto questo perchè così si impara a ragionare! Questa è la Logica!
Ma vediamo, qual è il fantastico risultato di anni e anni di pappagallismo neppur tanto dissimulato? Nel migliore dei casi faticosissime opere di meticolosa decifrazione di poche righe scritte in una lingua oscura e misteriosa... e ricca ricchissima soprattutto di tante tantissime eccezioni. Il tutto sempre accompagnati da quel fedelissimo e insostituibile compagno di decifrazione che è il Santo Dizionario. Nel peggiore l'odio radicale e radicato per la lingua che per secoli e secoli hanno parlato i nostri stessi antenati e che ha prodotto molti dei vertici della letteratura di tutti i tempi.
Anche qui Manganelli aveva visto giusto già 35 anni fa.
Ci deve essere qualcosa di guasto in un insegnamento che in otto anni non riesce a far di un allievo un lettore agiato e disteso dei classici di una qualsiasi lingua. In otto anni si impara il cinese, con il sanscrito per buona giunta. In realtà ci hanno insegnato delle sciocchezze, e proprio perchè erano tali han dovuto insegnarcele con vessazione.
Già, la vessazione. Unica arma per costringere un povero adolescente a mandare a memoria regole e regolette di ogni tipo, senza vederne i frutti. Ancora Manganelli:
Il problema è se riuscirà mai a imparare il latino uno che l'ha studiato a quel modo.
Questo modo di studiare la lingua latina è innaturalissimo, e a non rendersene ancora conto sono oggi proprio coloro su cui anni e anni di un così alto studio preparatorio alle più alte conquiste della Logica ha avuto i peggiori effetti: incapacità di prendere in considerazione strade alternative, di mettersi in gioco, di ricominciare se necessario anche da capo.
Questa elasticità è un messaggio che dovrebbe arrivarci anche e proprio dalla lettura dei testi in lingua latina. Ma - dimenticavo - apprendendo in quel modo si riesce forse a leggere i testi latini?
Al massimo si risolvono rompicapi e cruciverba. E neppure tanto bene.

Antonio Saccoccio

sabato 23 luglio 2011

I giovani al bivio: fatica e frustrazione vs passione e felicità

L'idea che bambini e ragazzi debbano obbligatoriamente passare gran parte della loro esistenza chiusi, anzi rinchiusi, nelle scuole, è indubbiamente un residuo di una concenzione del mondo atroce. Una concezione a cui guarderemo inorriditi fra qualche decennio. E' evidente che in un mondo in cui conta prima di ogni altra cosa sacrificarsi quotidianamente in nome della competizione con i nostri simili e della corsa insensata verso qualcosa che si definisce "successo" o "potere", la scuola non è che una palestra per addestrarsi a questa miserabile lotta alla sopravvivenza. Ma, è evidente da diversi anni e da diversi sintomi ormai, i giovani iniziano a percepire l'imbecillità di un simile modo di condurre l'esistenza. La nuova visione del mondo chiede di vivere seguendo i desideri e le passioni, aspirando al piacere, alla felicità. Che senso ha, quindi, questo addestramento militarizzato, punitivo, autoritario e repressivo che ancora i giovani devono subire nelle scuole, se non quello di mantenere artificialmente in piedi una concezione della vita che ormai vacilla sotto tutti i punti di vista? Questa pesante e forzatissima scolarizzazione che ha come obiettivo primario l'abitudine al sacrificio, all'obbedienza, alla fatica ha ancora (se mai l'ha avuta) una ragione di esistere?
Già una quindicina di anni fa, nel 1995, Raoul Vaneigem, libero pensatore con un glorioso passato situazionista alle spalle, commentava così:
Ormai, ogni bambino, ogni adolescente, ogni adulto si trova all'incrocio di una scelta: sfinirsi in un mondo sfinito dalla logica della redditività ad ogni costo, o creare la propria vita creando un ambiente che ne assicuri la pienezza e l'armonia. Perché l'esistenza quotidiana non può essere confusa più a lungo con questa sopravvivenza adattativa a cui l'hanno ridotta gli uomini che producono la merce e dalla quale sono prodotti. Noi non vogliamo più una scuola in cui s'impara a sopravvivere disimparando a vivere.
Al di là del simpatico e neppure troppo originale gioco di parole "vivere/sopravvivere", Vaneigem vedeva giusto. E vedeva giusto anche perchè collegava il mito della scuola all'altro mito del lavoro, considerando il primo una preparazione all'altro.
Si tratta di scegliere tra la vita tutta risolta nel dolore, nella fatica e nel sacrificio e la vita che ha come fine il piacere, la passione, la felicità. La follia contemporanea è che allo studente oggi viene presentata la prima scelta come una scelta saggia e la seconda come una scelta perdente. Per questo motivo viviamo in un mondo di insoddisfatti cronici. La scelta imbecille è fatta passare per saggia e non tutti sono così saggi da comprendere l'ignobile truffa.
Occorrerà combattere in modo limpido ma irriducibile ogni tendenza autoritaria che cercherà ancora di spegnere il giusto risentimento dei giovani, che si sentiranno sempre più oppressi dalla doppia religione della scuola e del lavoro. Occorrerà innanzitutto descolarizzare, togliere potere alle scuole in qualsiasi modo ci sarà possibile. Il potere della scuola è ancora enorme. Chiunque sarà addestrato al sacrificio, alla fatica, alla noia, alla disperazione difficilmente non ripeterà quel modello per tutta la vita. Chi scoprirà che l'esistenza può aprirsi alla libera esplorazione di sè, della natura e degli altri, conquisterà un bene a cui difficilmente rinuncerà.

Antonio Saccoccio

lunedì 11 luglio 2011

Contro l'obbligo scolastico

Uno dei miti contemporanei da sfatare è che la scuola sia sinonimo di civiltà. Ancora più errata è la convinzione che sia un segno di civiltà l'obbligo scolastico. Qualsiasi autentico libertario è allergico alla parola "obbligo", e anche se riferito alla scuola il termine risulta allo stesso modo fastidioso. Nessun individuo, nessuna istituzione dovrebbe poter imporre ai bambini e ai ragazzi di andare a scuola. Quella che viene spacciata come una grande conquista, è in realtà una grande conquista solo per chi vuole asservire l'uomo e renderlo bene integrato al sistema dominante. Se si tratta di conquistare, colonizzare l'uomo, allora di sicuro l'obbligo scolastico è lo strumento più efficace per raggiungere questo obiettivo. Ma se si parla di conquiste umane, allora le cose stanno in modo radicalmente diverso.
La scuola, attraverso l'obbligo, manifesta la pretesa (violentissima e volgarissima pretesa) di voler monopolizzare l'apprendimento, che - lo vediamo oggi con sempre maggiore evidenza - è invece il risultato di continui stimoli ricevuti e interazioni stabilite con l'ambiente esterno e molto spesso indipendenti dalla frequenza scolastica. La scuola può così stabilire, in modo assolutamente autoritario, ciò che è giusto e utile sapere e saper fare. La scuola diventa anche l'unica realtà preposta ad attribuire credibilità all'apprendimento, mediante l'emissione di titoli di studio. E chi può farsi garante di questo apprendimento scolastico e quindi del titolo di studio? Può farlo solo chi è già passato per lo stesso percorso, e ha conseguito anni prima quei titoli di studio che ora deve certificare. In questo sistema il titolo di studio viene totalmente mercificato. A scuola si apprende nient'altro che ad entrare nel circolo di produzione e consumo che caratterizzerà l'alienante vita futura. Già nel 1971 in Invece dell'istruzione, Illich affermava:
Abbiamo cercato per generazioni di migliorare il mondo fornendo una quantità sempre maggiore di scolarizzazione, ma sinora lo sforzo non è andato a buon fine. Abbiamo invece scoperto che obbligare tutti i bambini ad arrampicarsi per una scala scolastica senza fine non serve a promuovere l'uguaglianza ma favorisce fatalmente colui che parte per primo, in migliori condizioni di salute o più preparato; che l'istruzione forzosa spegne nella maggioranza delle persone la voglia di imparare per proprio conto; e che il sapere trattato come merce, elargito in confezioni e considerato come proprietà privata, una volta acquisito, non può che essere sempre scarso.
C'è da disperarsi, quindi, quando gli ingenui scolarizzatori, che spesso usano per sè il titolo di "progressisti" (!), si esaltano confidando in un ulteriore innalzamento dell'obbligo scolastico. L'obbligo di frequentare la scuola è probabilmente più disumano del tanto criticato obbligo del servizio di leva, se non altro perchè non ci priva di un anno, ma di intere decadi della nostra esistenza! (e le migliori!) A tutto ci si abitua, certamente, ma l'abitudine alla scuola ha dell'incredibile, dato che nessun pensiero e nessun dato ormai ci rassicura sull'indispensabilità dell'istituzione scolastica. Dobbiamo quindi operare contro l'obbligo scolastico, affinchè l'apprendimento sia liberato da un'istituzione soffocante e dirigista.
E occorre operare anche contro il valore legale del titolo di studio, che indurrà sempre a scambiare il conseguimento di diplomi e lauree per reale apprendimento.

Antonio Saccoccio

lunedì 20 giugno 2011

Giovanni Papini, la scuola e l'ansia di conoscenza

Giovanni Papini nacque il 9 gennaio del 1881. Di famiglia modesta, visse una fanciullezza all'insegna della solitudine. Ma sin dalla tenera età si gettò nella lettura dei libri della biblioteca paterna (Carducci, Giusti, Plutarco, Alfieri, Erasmo da Rotterdam, etc). Scriverà nel suo capolavoro Un uomo finito:
Per me la realtà non era quella della scuola, della strada, della casa ma piuttosto quella dei libri - là dove mi sentivo viver di più.
Completata la lettura dei libri del padre, passò presto alla biblioteca di Augusto Novelli, per giungere in seguito alla Biblioteca nazionale. Del momento in cui riuscì ad entrare finalmente in biblioteca (evitando dopo ripetuti tentativi il divieto di ingresso per i minori di 16 anni!) ricorderà:
Dopo quel giorno ci tornai tutti i giorni, per tutto il tempo che la tediosissima scuola mi lasciava libero.
E poi:
Mi gettai a capofitto in tutte le letture che mi suggerivano le mie pullulanti curiosità o i titoli de' libri che trovavo in altri libri visti nelle vetrine e sui barroccini e intrapresi allora, senza esperienza, senza guida, e senza un qualsiasi disegno, ma con tutto il furore e l'impeto della passione, la vita dura e magnifica dell'onnisapiente.
Senza esperienza e senza guida, così si muoveva Papini tra gli sterminati volumi della biblioteca nazionale. Guidato dalla sola passione. La scuola lo annoiava. La sua sete di conoscenza trovava appagamento dove non c'era nessuno a dire cosa andava letto o ricercato. In questo modo si formò colui che sarebbe diventato pochi anni dopo uno tra i principali animatori della vita culturale e letteraria italiana dei primi decenni del Novecento. In questo modo si formò uno dei pensatori più liberi che abbia mai avuto il nostro Paese.

Antonio Saccoccio

sabato 28 maggio 2011

Ivan Illich: non ho mai imparato nulla a scuola

Difficile dire quanti bambini vengono oppressi oggi dalla scuola. La scuola serve a modellare i bambini e a farne degli elementi adatti ad integrarsi nell'ingranaggio generale della società. Quindi i bambini più curiosi e sensibili sono generalmente quelli più oppressi dalla scuola. Ivan Illich, noto per il suo testo Descolarizzare la società (1971), ricorda così il suo ingresso a scuola:
A sei anni, quando le lingue che conoscevo erano il francese, l'italiano e il tedesco, mia madre voleva iscrivermi a una scuola di Vienna, una scuola molto buona dove per i bambini era già in uso la pratica dei test. E questi decretarono che ero un bambino ritardato. Il che fu per me un grande vantaggio perché così potei stare per due anni nella biblioteca di mia nonna, leggere i suoi romanzi e cercare nei dizionari tutte quelle cose interessanti che possono eccitare la curiosità di un bambino dispettoso di sette anni.
Certo, è curioso che Illich venga considerato ritardato dalla scuola, ma per chi è all'interno di questa istituzione (ed è capace di analizzarla criticamente) tutto ciò non sorprende: per la scuola il bambino vivace è un problema, perchè porta scompiglio in un ambiente che ha il compito di normalizzare, sedare, castrare ogni velleità.
Per chi è affamato di vita la scuola non può che essere un'enorme frustrazione. Chi è affamato di vita può trovare solo al di fuori della scuola (e dalle altre istituzioni castranti) i giusti stimoli.
Non ho mai preso seriamente la scuola. Di fatto tutto quello che ho imparato l'ho imparato fuori dalla scuola.
E' ancora Illich a parlare. E non si può che condividere.

Antonio Saccoccio

domenica 17 aprile 2011

Educazione, ribellione, utopia: l'esempio di Marcello Bernardi

Pensare una scuola radicalmente differente da quella attuale (o pensare che la scuola non abbia oggi ragione di esistere) è per moltissimi un'assurdità o una follia. Coloro che sostengono l'impraticabilità di alternative allo status quo sono di norma considerati "conservatori" o "reazionari". Ma nei periodi di maggiore oscurantismo e passatismo (come il nostro) godono del più nobile appellativo di "realisti".
Ora si dovrà prima o poi chiarire che tutti costoro, realisti, conservatori o reazionari, devono essere chiamati più propriamente vili realisti, vili conservatori, vili reazionari. E non è una semplice provocazione, è ciò che ci troviamo ad osservare ogni giorno.
A scuola si insegna ad essere non solo conservatori, reazionari e realisti (nel senso di vili conservatori, vili reazionari, vili realisti), ma si insegna a diffidare e a screditare chi coltiva aspirazioni di riscatto e di ribellione, chi sogna, chi spera, chi crede in qualcosa con convinzione. Il motivo non è difficile da comprendere: chi insegna ha dovuto subire, tempo fa, la stessa selezione, gli stessi giudizi: vai bene se ripeti il mondo così com'è, sei sbagliato se ti ribelli a quel mondo e vuoi in qualche modo rovesciarlo. L'insegnante, nella stragrande maggioranza dei casi, è un vile. Ci sono ben pochi giri di parole da fare. Ma gli insegnanti sono vili, perchè gli adulti sono vili. Sono uomini che non si prendono la responsabilità (e la gioia) di vivere da uomini, che non vogliono scegliere come vivere, ma si adattano a vivere come altri hanno deciso per loro. In questo, aveva perfettamente ragione il libertario Marcello Bernardi, quando scriveva:
Il sistema non ha bisogno di uomini. Gli uomini, se sono uomini, non sono convenienti, sono anzi pericolosi. E infatti il sistema fa di tutto perchè essi perdano le caratteristiche della loro specie.
Il gioco, in fondo, è abbastanza semplice. Basta sottoporre l'individuo a un complesso di pressioni condizionanti, fin dal momento della sua nascita. Così ogni nuova generazione si troverà alle prese con persone già manipolate e private delle loro qualità scomode, e da queste persone saranno educate, e il fenomeno si ripeterà all'infinito automaticamente.
Il bambino in effetti ha pochissime occasioni di incontrare degli adulti che siano anche degli uomini e non trova quindi dei modelli ai quali fare riferimento, con i quali confrontarsi, per diventare uomo a sua volta.
Il problema allora è questo: dobbiamo o no dire al bambino che la maggioranza delle persone che lo circondano è "sbagliata", che ben pochi adulti possono essere considerati umani in quanto quasi tutti si adattano a una struttura sociale disumanizzante e accettano quindi la negazione della propria umanità? Dobbiamo o no dire al bambino che gli adulti fingono di essere uomini indipendenti, onesti e ragionevoli e invece di solito non lo sono? Dobbiamo o no dire al bambino che gli adulti lo ingannano?
Noi abbiamo il compito di svelare l'inganno. Noi abbiamo il compito che tanti adulti, che si presentano come saggi, moderati, onesti, difensori della legge, del diritto, dei valori e altre fesserie del genere, sono in realtà dei vigliacchi che hanno paura di pensare ad un mondo diverso e migliore. Questo i veri educatori dovrebbero ripetere a chiare lettere ogni giorno, a sè stessi prima e poi ai giovani. E comportarsi di conseguenza. Sì, perchè di fronte alla negazione adulta dell'umanità, occorrono adulti che affermino l'umanità, e quindi la capacità di pensare, desiderare e contribuire ad un mondo diverso. La nostra funzione storica ce l'ha indicata ancora Bernardi:
Dichiarare il fallimento del passato e del presente e fornire modelli di comportamento suggeriti da un futuro diverso.
Non dobbiamo disperare se attorno a noi regna la depressione, la rassegnazione, il deserto intellettuale e morale. E non dobbiamo neppure delegare ai giovani il compito di cambiare le cose. Dobbiamo noi per primi essere un esempio di diverso atteggiamento, propositivo, aperto, coraggioso, persino eroico.
E occorre essere accusati di "utopia". Quando ci accuseranno di "utopia" saremo certamente stati capaci di pensare a qualcosa di importante per il nostro presente e il nostro futuro. Ancora Bernardi:
Utopia. Parola singolare, che stimola gli uni e imprigiona gli altri. Per il rivoluzionario l'utopia è una fede. Una fede insopprimibile, profonda, incorruttibile, assoluta. E' una ragione di vita. Direi persino che è la vita. Per il conservatore è una parola che tronca sbrigativamente ogni tentativo di proposta alternativa. E' l'incredulità, la negazione, il rifiuto. E' la base della sua determinazione a non fare.
Altra accusa: quella di pazzia. Ma "pazzi sono ritenuti dai conservatori tutti coloro che osano sperare o, anche peggio, credere". Come sosteneva Camus: "se chi spera nella condizione umana è un pazzo, colui che dispera degli avvenimenti è un vile".

Gli adulti, e soprattutto gli educatori, hanno il compito di mostrare che un mondo diverso è possibile. Gli adulti non dovrebbero essere vili. O almeno gli educatori andrebbero scelti tra adulti pienamente uomini, e non vili. Gli adulti, almeno gli educatori, dovrebbero tenere sempre presenti le parole di Bernardi:
Molti affermano che la norma repressiva è inevitabile, che l'uomo non è mai stato e non può mai essere veramente libero, che da sempre l'organizzazione sociale impone la propria legge non foss'altro che per sopravvivere e che l'educare senza tener conto di questa legge vuol dire gettare fra gli uomini il seme del caos e del più funesto disordine. Affermano inoltre che la legge deve, per la sua stessa natura, essere imposta dai pochi ai molti, poichè nella storia dell'uomo c'è sempre stato chi deve comandare e chi obbedire, chi deve pesnare e chi deve eseguire, chi deve avere un potere e chi non deve averlo. E che perciò la non-stratificazione sociale è impensabile. In sintesi, affermano che il mondo così è e così deve restare.

Non voglio negare, beninteso, che la comunità umana debba essere in qualche modo organizzata, nè che per fare ciò sia indispensabile una norma. La strada percorsa fin qui è senza dubbio la più comoda, ma anche la più indegna dell'uomo. E' mia ferma convinzione che si possa e debba cambiarla. Cambiarla del tutto e per sempre, senza possibilità di ritorno.
Si tratta di essere umani. Si tratta di scegliere. L'uomo, a differenza degli altri animali, ha la facoltà di accettare o rigettare qualcosa. Può scegliere tra un mondo e un altro. Questo dobbiamo mostrarlo ai giovani. Sempre se è nostra intenzione sperare in un mondo migliore.

Antonio Saccoccio

mercoledì 9 marzo 2011

I frutti della valutazione scolastica: slealtà, scarso apprendimento, ansia, depressione, produttivismo

Da anni ci esprimiamo criticando fortemente la deriva valutazionista della scuola. In un paragrafo di quello che doveva diventare il Manifesto della Scuola Net.futurista, avevamo indicato nella valutazione una delle criticità fondamentali (tanto che entrò a far parte anche del manifesto generale del 2008). Per anni abbiamo continuato a riflettere sulle possibilità di una scuola d'avanguardia, senza riuscire mai a completare quel manifesto (e presto ne esamineremo le ragioni). Ma è significativo che l'unico paragrafo in qualche modo compiuto sia stato quello sulla valutazione.
Probabilmente senza valutazione, la scuola avrebbe ancora un senso. Provate un attimo ad immaginare una scuola in cui nessun prodotto o prestazione viene trasformato in voti. Basterebbe sostituire alla valutazione continua una serie di opinioni, critiche, consigli, esempi. Immaginiamo un contesto simile e le conseguenze. Cosa accadrebbe?
1. Il rapporto alunno-professore diventerebbe meno teso, più amichevole, più sincero. Non ci sarebbero più tentativi dell'alunno di fregare il professore (compiti copiati, scaricati dal web, etc.), nè del professore di fregare l'alunno (perchè anche questo accade, e non raramente!). La slealtà avrebbe poche ragioni di esistere.
2. Studiando non in funzione del voto, l'alunno sarebbe portato a studiare solo per passione, generando così un apprendimento reale, e non puramente formale e destinato a svanire nel giro di qualche giorno/settimana.
3. Scomparso il voto, scomparirebbero automaticamente le conseguenze aberranti che porta assai spesso con sè: paure, stress, ansia, depressione. Su questo problema dell'ansia scolastica occorre riflettere maggiormente. Ci sono varie scuole di pensiero che occorre stroncare rapidamente. C'è il professore che semplicemente ignora e fa finta di ignorare l'ansia che provoca con il suo atteggiamento da giudice inquisitore. C'è chi invece nota l'ansia, ma attribuisce la colpa a chissà quale stato di insufficienza mentale degli alunni. Su queste due categorie non vale la pena neppure di discutere, tanta è la pena (!) che ci fanno i signori che le sostengono.
Ma c'è un'ultima scuola di pensiero, indubbiamente più evoluta delle prime due, ma che va contrastata con altrettanta convinzione. C'è infatti chi sostiene che gli alunni debbano affrontare questi stress perchè la vita stessa è stressante, e quindi la scuola in questo modo prepara alla vita futura! Ora, è vero che questa è l'unica risposta significativa che oggi come oggi si può dare ad uno studente ansioso per tranquillizzarlo almeno un po'. Ma è altrettanto vero che quella è una risposta di difesa, un palliativo, e noi abbiamo invece il compito di trovare soluzioni reali. E' certamente vero che la vita oggi è ricca di stress, di ansia e di depressione, ma noi non abbiamo il compito di rendere l'ambiente scolastico ricco di ansia e depressione per renderlo simile al mondo. Se il mondo non ci piace, noi abbiamo il compito di migliorare il mondo, e magari partendo proprio dalla scuola. Se la scuola ci abitua ad accettare la nostra condizione d'ansia, stress e depressione, cosa ci aspetta per il futuro? Una vita d'ansia, stress e depressione, senza dubbio.
4. La valutazione porta con sè l'idea della misurazione, della competizione, e quindi del produttivismo. Questa idea di misurare a tutti i costi ogni cosa è in funzione di una mentalità ormai profondamente orientata alla produzione e al consumo. Anche in questo caso la scuola non è altro che un braccio armato dello Stato, preparando le giovani leve in modo il più possibile omogeneo e tranquillizzante. Anche in questo caso occorre opporsi ad un sistema che viene dato per scontato, e che invece è il frutto di una visione del mondo mediocremente adagiata sulla sofferenza, il dolore, la paura.

Antonio Saccoccio

venerdì 25 febbraio 2011

La scuola noiosa. Un modello da combattere.

Avevamo letto qua e là dell'ennesimo libello scritto da insegnanti frustrate e totalmente incapaci di decifrare la realtà contemporanea. Non ne avevamo parlato perchè siamo ben consapevoli che criticare queste pubblicazioni significa in qualche modo dare alle stesse una qualche credibilità. Non sprechiamo del tempo per criticare ciò che è irrilevante, ciò che fa parte della palude culturale. Eppure, oggi quel libello arriva sulla prima pagina del Corriere della Sera. Centinaia di migliaia di poveri lettori italiani avranno letto l'articolo di Cesare Segre (illustre filologo e critico letterario), in cui elogia (sic) il libro di Paola Mastrocola (è lei l'autrice dell'ultimo disperato delirio in favore della scuola perduta). E allora dobbiamo finalmente parlarne. Perchè il pericolo, nel nostro Paese, di una deriva autoritaria, di una completa restaurazione di un pensiero gerarchico e fascistissimo non è da sottovalutare. Intendiamoci, il problema si pone per i prossimi 5-10 anni, perchè già tra 20 anni di questo ennesimo patetico libello non resterà ovviamente nulla, e delle parole di Segre ci si potrà far beffe. Tra 20 anni di tutta questa faccenda resterà soltanto questo nostro articolo, come è ovvio e giusto che sia.
Fino a quando tanta gente si informerà sulle grande testate nazionali e sui pochi grandi canali televisivi nazionali, dovremo fare molta attenzione. Fra qualche decennio, quando sarà ultimato il processo di decentralizzazione e degerarchizzazione del potere mediale, allora non dovremo neppure sprecare questi minuti per contrastare articoli senza idee come questi, che finiranno immediatamente nell'indifferenza più totale.
Il titolo dell'articolo di commento di Segre è tutto un programma: "La scuola facile. Un modello che non va". Dobbiamo essere sinceri. In noi avanguardisti è presente anche un gran godimento nel leggere la frustrazione di questi professoroni, che annaspano in quel tempio della Cultura che credono in qualche modo ancora di tenere in piedi con la loro autorità. Ma la realtà è ancora ben altra. Sui quotidiani nazionali non fanno certo scrivere chi è in grado di percepire e decifare la sensibilità contemporanea. Fanno scrivere chi è in linea con la sensibilità del nostro dopoguerra (prima del boom, sia chiaro!).
Com'è possibile che un professore universitario come Segre possa lodare idee tanto decrepite e pericolose? La risposta è molto probabilmente una sola: Segre è un filologo.
Ma ascoltiamo le sue parole:
Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Gianni Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo, svalutando il concetto di nozione come conoscenza, e, in generale, il tipo di conoscenze che sono di solito oggetto di studio. Di qui l' avversione per il sapere letterario (guai al povero Virgilio!) e in particolare linguistico, considerati appannaggio dei ricchi. E anche la valorizzazione del territorio, la chiusura nella provincia e nei lavori contadini: non pensando che questo bloccava qualunque aspirazione al miglioramento mentale, ma anche economico degli scolari.
Ecco. Il filologo ritira puntualmente fuori la rivalutazione del nozionismo. Possiamo sorridere quanto ci pare. Ma questo è il livello del dibattito sulla scuola nel 2011 sul nostro principale quotidiano nazionale. Ritirare fuori la questione del nozionismo ci pone fuori dalla storia, fuori dal mondo, fuori dalla realtà. Il nozionismo scolastico è la causa di tutti i mali (quasi, ma lo aggiungiamo poco convinti) della società contemporanea. Che il nozionismo sia portatore di superficialità, vanità, disimpegno, morte non è per fortuna più argomento di discussione, neppure al bar dello sport. Su queste pagine si discute se tutta la scuola, anche quella meno stupidamente nozionistica e più autenticamente libertaria, sia da cancellare. Di questo si dovrebbe discutere anche sulla prima pagina del Corriere della Sera.
Noi dobbiamo impegnare le nostre forze per cancellare questa idea di vita asservita alle istituzioni più autoritarie (la scuola) e ai valori più dannosi (lo studio, la disciplina). La vita non può essere al servizio della scuola. Forse potrebbe essere accettata una scuola al servizio della vita. Molto più probabilmente la scuola non ha alcun motivo di esistere.
Il problema è che di tutto questo Segre non si preoccupa minimamente. Forse l'obiettivo della scuola dovrebbe essere creare filologi come lui, capaci di insegnare nelle più prestigiose università e di pubblicare studi critici sulle lezioni varianti nei testi letterari, ma incapaci della minima osservazione critica sulla realtà contemporanea?
Ecco. E' questo il punto. Noi non vogliamo essere filologi. Noi vogliamo essere uomini a mille dimensioni. O meglio: vogliamo essere anche filologi, ma prima ancora uomini a mille dimensioni.
E poi, inserire in un'accozzaglia di tòpoi tanto ammuffiti il freschissimo nome di Don Milani. Per favore, occupatevi di altro. Lasciate stare Don Milani, che veleggia alto su territori che non potete neppure sfiorare da lontano.

Ma leggiamo ancora Segre:
Era inevitabile che in questa cultura «facile» fossero affossati gli studi considerati «noiosi», o quelli che sembrassero privi di utilità pratica immediata.
Ecco il punto decisivo. Occorre annoiarsi, altrimenti non si sta studiando! Eppure io non ricordo mai di aver appreso qualcosa annoiandomi. Quando amo ciò che leggo, non ho assolutamente l'impressione che sia noioso o faticoso. Persino l'articolo di Segre, noiosissimo in sè, non mi annoia. Mi diverte.
E divertiamoci ancora.
Qui la Mastrocola mostra bene, con opportuni riferimenti, che si è affermata una nuova pedagogia, che favorisce «la scuola del fare, del saper essere, del saper stare (insieme), dello smanettamento collettivo e dell' invasamento tecnologico, non certo la scuola del sapere, delle nozioni (intese come conoscenze), della letteratura e dello studio astratto, teoretico».
Difficilmente si può avere la fortuna di leggere un condensato simile di passatismo. La confusione di queste parole è sicuramente sintomatica della frustrazione di chi le ha partorite. Il procedimento mentale che può portare a mettere insieme il fare, il saper essere, il saper stare insieme (obiettivi altissimi) con lo smanettamento collettivo e l'invasamento tecnologico (qualsiasi cosa significhino queste espressioni nel cervello degli autori) è patologico. Sembra di sentire il lamento disperato dell'ultimo degli schiavisti prima che i liberatori facciamo giustizia dei loro misfatti.
Ma si percepisce anche, e molto chiaramente, l'enorme frustrazione, in quell'aggettivo-spia "tecnologico", che messo lì in mezzo tanto a sproposito finisce per smascherare intenzioni puramente reazionarie.

E infati il finale, sempre all'insegna dell'anti-tecnologismo più sciatto e ignorante, è letteralmente memorabile. Un finale che vorrebbe essere epico. E non fa che divertirci ancora di più.
Difficile indicare rimedi alla situazione messa in luce dall' autrice. Occorre un nuovo cambio di mentalità, che rimetta al centro dell' insegnamento lo studio, e che annulli l' insensato asservimento del sapere umanistico a quello tecnologico. Per ora, la Mastrocola dovrà rassegnarsi ad essere considerata una reazionaria. Ma questo è forse uno dei pochi casi in cui solo la reazione può difendere ideali e principi vitali prima che vengano definitivamente cancellati.
"Insensato asservimento del sapere umanistico a quello tecnologico". Chissà se Segre si rende conto che grazie a tecnologie può fare il suo altissimo mestiere di filologo. E chissà se si rende conto che grazie ancora ad altre tecnologie può scrivere fesserie del genere ed essere letto da centinaia di migliaia di persone, prima su carta, poi su schermo. Ancora una volta l'uomo dimezzato, scisso, dissociato del Novecento si presenta ai nostri occhi: ancora una volta dobbiamo sentirci fare la morale con la contrapposizione tra sapere umanistico a quello tecnologico. E' un mondo finito quello di cui parla Segre. L'uomo ad una dimensione che non ci sarà più per fortuna. Non ci sarà più perchè la scuola che vogliono quelli come lui, la scuola che ci ha fatto studiare 30 canti della Commedia dantesca e non ci ha fatto realmente riflettere su nessuno di quei canti, la scuola in cui si studia e si impara ad annoiarsi, quella scuola è finita.
Continuare poi a difendere la scuola della morte in nome di "ideali e principi vitali" (quali sarebbero? lo studio? la noia? la fatica? la disciplina?) è comico. La vita è un'altra cosa. La vita è piacere. La vita è entusiasmo. La vita è libertà.
Andrà avanti forse per qualche anno questa scuola noiosissima, grazie agli sforzi eroici di libellisti di quart'ordine e filologi fuori dal mondo. Ma i giochi sono ormai fatti. Nel mondo che vogliamo non solo non esisteranno gli studi noiosi. Ma non esisterà - e di questo non meravigliatevi troppo - neppure la parola "studio".

Antonio Saccoccio

venerdì 11 febbraio 2011

"Se studierai bene, poi ti darò un dolce!": Carlo Michelstaedter e la sua critica all'educazione e alla scuola

Carlo Michelstaedter è una di quelle figure che dobbiamo rimpiangere. Dobbiamo rimpiangere soprattutto la sua morte prematura, quel colpo di rivoltella con cui si tolse la vita a soli 23 anni. Pochi giorni dopo la morte, Giovanni Papini scrisse che si era suicidato per "accettare sino all’ultimo onestamente e virilmente le conseguenze delle sue idee".
Le sue tesi sulla retorica e la persuasione sono ancora oggi ricche di ottimi spunti critici. E le pagine che sentiamo più vive sono proprio quelle dedicate alla critica della scuola e dell'educazione. Ripercorriamo quelle pagine, tratte da "La Persuasione e la Rettorica" (1910), che fu - badate bene! - la sua tesi di laurea.

La peggior violenza si esercita così sui bambini sotto la maschera dell’affetto e dell’educazione civile. Poiché colla promessa di premi e la minaccia dei castighi che speculano sulla loro debolezza e colle carezze e i timori che alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie in una famiglia civile: le quali come nemiche alla loro natura si devono appunto imporre colla violenza o colla corruzione. [...]
«Tu sarai un bravo ragazzo come quelli che vedi là andare alla scuola, sarai come un grande». Gli si forma il mito di questo bravo scolaro grande, e ogni cosa appartenente allo studio, alla scuola acquista un dolce sapore: l’andare a scuola, la borsa per i libri ecc. E si forma la gerarchia dei valori in rapporto alla superiorità della classe: «Se sarai bravo, il prossimo anno, non scriverai più sulla lavagna, ma in quaderno!» e con l’inchiostro!». Tutti approfittano di quest’anima in provvisorio che sogna «il tempo quando sarà grande», per violentarla, «incamiciarla», ammanettarla, metterla in via assieme agli altri a occupare quel dato posto, e respirar quella data aria sulla gran via polverosa della civiltà.
Occorre riflettere attentamente - lo abbiamo detto più volte - su questa idea del "mito della scuola". Michelstaedter giustamente parla del "mito" del bravo scolaro. E' proprio facendo forza su questo mito che si può violentare e ingabbiare i bambini, i ragazzi.
Ma il giovane filosofo goriziano va anche oltre questa constatazione. La dissociazione tra piacere e dovere è un altro aspetto fondamentale della questione. E anche questa parte con la scuola.

Fin dai primi doveri che gli si impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo indifferente a quello che fa, perché pur lo faccia secondo le regole con tutta oggettività. «Da una parte il dovere dall’altra il piacere». «Se studierai bene, poi ti darò un dolce – altrimenti non ti permetterò di giuocare». E il bambino è costretto a mettersi in capo quei dati segni della scrittura, quelle date notizie della storia, per poi avere il premio dolce al suo corpo.
«Hai studiato – adesso puoi giuocare!».
E il bambino s’abitua a considerar lo studio come un lavoro necessario per viver contenti, se anche in sé sia del tutto indifferente alla sua vita: ai dolci, al giuoco ecc. Così gli si impongono le determinate parole, i determinati luoghi comuni, i determinati giudizi, tutti i καλλωπίσματα della convenienza e della scienza, che per lui saranno sempre privi di significato in sé ed avranno sempre soltanto tutti quel costante senso: è necessario per poter avere il dolce, per poter giuocare in pace: la sufficienza e il calcolo.
Quando al dolce e al giuoco si sostituisca il guadagno, «la possibilità di vivere» –: «la carriera», «la via fatta», «le professioni» – lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei gusti, per mangiare, bere e dormire e prolificare.

L'indifferenza e l'alienazione di tutta una vita partono così da quel meccanismo terrificante che è la scuola e lo studio utilitaristico. La drammatica indifferenza verso ciò che si legge e si studia. Dante, Leopardi, Seneca e Platone trasformati in mezzi per ottenere il dolcetto, il premio, il successo. L'ammaestramento e l'indottrinamento a cui sono sottoposte le giovani menti, con tutte le convenzioni sociali e i luoghi comuni mascherati da alti pensieri: tutto ciò grazie all'istituzione scolastica.


Così ne potremo fare un degno braccio irresponsabile della società: Un giudice, che giudichi impassibile, tirando la proiezione dalla figura che l’istruttoria gli presenti sulle coordinate del suo codice, senza chiedersi se questo sia giusto o meno. Un maestro, che tenga 4 ore al giorno 80, 90 bambini chiusi in uno stanzone, li obblighi a star immobili, a ripetere ciò che egli dica, a studiare quelle date cose, lodandoli se studino e siano disciplinati, castigandoli se non studino e non s’adattino alla disciplina, – e non s’accorga d’esser un uomo che sta esercitando violenza sul suo simile, che ne porterà le conseguenze per tutta la vita, senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia – ma secondo il programma imposto. Un boia, che quando uccida un uomo non pensi, che egli, un uomo, uccide un suo simile, senza sapere perché l’uccida. Perché egli non veda mai altro in tutto ciò che quell’ufficio indifferente su cui non si discute ma che gli dà i mezzi per vivere, e sia istrumento inconsapevole. [...]


Come al bambino si diceva: «fai come dice il babbo che ne sa più di te, e non occorre che tu domandi ‘perché’, obbedisci e non ragionare, quando sarai grande capirai». Così si conforta il giovane a perseguire nel suo studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: «tu cooperi all’immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po’ anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno». Ma gli uomini temo che siano sì bene incamminati, che non verrà loro mai il capriccio di uscir della tranquilla e serena minore età.

L'arte della ripetizione meccanica, immobile e imbecille. L'arte dell'imbecille disciplina e dell'imbecillissima obbedienza. 
Carlo Michelstaedter: anno 1910.

Antonio Saccoccio

sabato 5 febbraio 2011

Chiudersi a riccio nella disciplina per non affrontare la complessità della realtà: ecco come gli insegnanti demoliscono i nostri giovani

Chi insegna in una scuola superiore italiana (soprattutto nei tradizionali licei) ha ben presente lo stato di totale inadeguatezza dell'istituzione. L'impressione è quella di una struttura dannosa che genera nella quasi totalità dei casi noia, frustrazione, competizione, perdita continua di tempo, atteggiamenti servili e/o utilitaristici. Ha affrontato il tema Nicola Ruganti, in un buon articolo sul numero 2 de "Gli Asini", rivista di educazione e intervento sociale. Ruganti ha iniziato con un'affermazione decisa e incontestabile:
Si può parlare solo in termini esasperati della scuola media superiore, perchè è la nitida fotografia del disastro economico e pedagogico del presente.
E poco più in basso immediatamente centra il punto:
Didattica e realtà hanno preso due strade diverse. Gli insegnanti si chiudono a riccio sulla disciplina e nell'altra parte del loro lavoro sono approssimativi: non sanno suggerire nessuna prospettiva su come affrontare il presente.
Lo ribadiamo da tempo: gli insegnanti italiani sono quasi sempre individui estranei alla vita, estranei alla realtà contemporanea. Non sono in grado di fornire una guida ai giovani, non sono in grado di renderli autonomi, non sono in grado di condurli verso l'auto-orientamento. E non sono in grado, perchè anche loro sono incapaci di orientarsi e di essere autonomi. La scuola di oggi è un ambiente morto, in cui si parla quasi sempre di morti e cose morte.
"L'insegnante chiuso a riccio nella disciplina" è lo specchio fedele di una realtà mortificante. In un mondo di una complessità devastante, è inimmaginabile pensare che il ruolo dell'insegnante sia ancora quello di alfabetizzare con norme e regolette di grammatica o matematica. Eppure abbiamo formato per decenni solo docenti di questo tipo. Docenti per cui insegnare è ripetere quotidianamente quattro nozioncine di letteratura, scienze, storia o filosofia che oggi si trovano (spesso anche più approfondite) su wikipedia. Docenti per cui insegnare significa mettere in fila quattro numeri incoerenti su una (apparentemente) elaboratissima ma (in realtà) imbecillissima griglia di valutazione.
E' evidente: la scuola svuotata di significato reale si rifugia nella norma rigida. Vede ancora bene Rinaldi:
Didattica muta e conoscenze spesso superficiali generano la necessità di obblighi. Eccone un esempio: si possono fare massimo cinquanta giorni di assenza (che non sono pochi!) e oltre si boccia.
Lo sfascio totale, quindi. Senza possibilità di redenzione.
Eppure, in attesa di tempi migliori (la descolarizzazione è il punto di arrivo, non dimentichiamolo mai), si possono tentare soluzioni avventurose.

a. Si dovrebbe dare enorme spazio ai singoli istituti, perchè se è vero che non si può curare una pianta malata dalle radici, è possibile provare con qualche innesto di fortuna. E in questo caso due sono le possibilità:
  1. Singole scuole che si prendono il massimo dell'autonomia dallo Stato centrale per sperimentare una scuola libera e libertaria. Per Ruganti "bisognerebbe spronare tentativi regionali di scuole, meritevoli e militanti, che scelgano di ritagliarsi un'autonomia didattica, economica e territoriale: potrebbe essere un'ultima scialuppa in questa bonaccia ad alta tensione".
  2. All'interno degli istituti, gruppi di insegnanti dovrebbero allearsi e auto-organizzarsi, provando così a salvare alcuni corsi o alcune classi, adottando una didattica della complessità, anti-autoritaria, anti-normativa.
b. Si dovrebbe puntare sui giovani, che hanno la chiara percezione dell'inutilità della scuola e non butterebbero mai il loro tempo studiando argomenti inutili. Osserva ancora Ruganti: "Meno male che ci sono i ragazzi che hanno una grande confidenza con il loro tempo e sono agili e ancora simpatici, che siano immersi in una trivellazione ossessiva del web o che abbiano istanze di indagine sulle esperienze concrete".

L'ultimo invito di Ruganti è a disobbedire. E anche su questo non possiamo che essere con lui. "Il compito del singolo insegnante... è quello di non seguire le mode delle riforme e/o le novità nei programmi".
Per chi è nella scuola disobbedire significa iniziare a descolarizzare dall'interno. Significa portare le idee libertarie all'interno della scuola-carcere, le idee della vita all'interno della scuola-loculo contemporanea.

Antonio Saccoccio

domenica 30 gennaio 2011

Miguel Benasayag, Angelique Del Rey, l'elogio del conflitto e la scuola

Miguel Benasayag è certamente un'intelligenza acuta e vivace. Ma ciò che ci piace maggiormente è che la sua è un'intelligenza militante, che combatte per una visione del mondo. Benasayag è un filosofo, ma non è un filosofo che se ne sta seduto dietro la sua cattedra, è un filosofo che è sceso e scende ancora in campo concretamente, incidendo nella realtà di ogni giorno (militante guevarista, dieci anni di carcere alle spalle). Il suo testo più noto è probabilmente Elogio del conflitto, in cui ha sostenuto con radicalità che la società postmoderna ha di fatto bandito ogni idea di conflittualità. Comprendere l'importanza della componente conflittuale in un mondo che di fatto cerca di annullare ogni tentativo di porsi in opposizione del sistema (o dei sistemi) di valori dominanti, non è da tutti. Viviamo momenti in cui parlare di "conflitti" sembra essere sempre politicamente scorretto. E senza conflitto non ci può essere superamento, senza conflitto c'è il trionfo dello status quo.
Qualche giorno fa, in un intervento all'Università La Sapienza di Roma, (l'occasione era un convegno dell'ADI) Benasayag ha colto tutti di sorpresa, riducendo in cenere la pedagogia delle competenze e il costruttivismo, tanto in voga negli ultimi decenni nella pedagogia contemporanea. Scuola delle competenze e costruttivismo sono figli dell'utilitarismo contemporaneo, della deriva economicistica e producono deterritorializzazione e alienazione. Sconcerto, sbandamento, frustrazione in sala: la didattica per competenze e il costruttivismo in un'oretta scarsa passano da salvezza a rovina della scuola. Il nemico non sono più il trasmissivismo e l'accumulo di conoscenze, ma il costruttivismo e la didattica per competenze. Il filosofo riesce a convincere larga parte dell'uditorio, ma non sfugge ai più attenti un uso "ad una dimensione" dei termini "competenze" e "costruttivismo", termini sicuramente sfuggenti e non da ora. Se è indubbio, infatti, che se pensati da uomini di scarso spessore i due termini sono realmente frutto di una visione tecnicamente utilitaristica e quindi poverissima della scuola (ma il discorso è noto da tempo agli spiriti illuminati, non ci vogliono certo filosofi per portarlo alla luce), non si può non notare che in altro modo la competenza e il costruttivismo possono esserei modi per liberare almeno parzialmente lo studente dall'autoritarismo, dal valutazionismo, dal rigidismo della scuola-dinosauro contemporanea. Insomma, Benasayag si scaglia (e conoscendo le sue posizioni ideologiche è comprensibile) contro competenze e costruttivismo viste come trattamento educativo dell'"uomo economico".
In realtà per noi il problema reale non è la scelta tra trasmissione o costruzione del sapere. Il problema è l'istituzione scuola concepita come luogo in cui produrre uomini regolarmente monodimensionali, i cui apprendimenti siano perfettamente misurabili per essere inseriti nella catena di montaggio dell'alienazione planetaria.
Benasayag non è un pedagogista, ma lo è la sua collaboratrice più stretta, Angelique Del Rey, che ha chiarito in un suo documento:
Una tale visione (quella del PISA e dell'approccio per competenze) definisce l'immagine di un uomo da educare, ripiegato su se stesso all'interno della nozione di competenza e ci spiega la svolta delle pedagogie attive verso il profitto e l'efficienza. L'uomo da educare è un "uomo senza qualità", sul quale applicare le competenze per il successo nella vita, tralasciando desideri, affinità elettive, tropismi e qualità intrinseche, sostituiti ad un'educazione emancipatrice che permette allo studente di essere attivo e di educarsi mentre viene educato. Si tratta di un'educazione alienante, che gli impone non solo dei contenuti e dei comportamenti normativi, ma che pretende che questi vi aderisca liberamente!
Alla luce di tutto questo, l'insegnante si chiede "Cosa devo fare allora? Se il trasmissivismo è inutile e dannoso e il costruttivismo è figlio dell'utilitarismo economicistico, cosa devo insegnare?".
La risposta sarebbe chiara, ma nessuno vuole farci i conti. Il problema è una scuola che vuole ridurre le differenze, non tenere in considerazione e rispettare le singole qualità, misurare ciò che sa e sa fare un ragazzo come fosse un animale da allevamento e produzione. Ecco che allora può davvero tornare utile (e al di là delle sue intenzioni) l'elogio del conflitto di Benasayag: la scuola non deve ridurre i conflitti, non deve normalizzare chi è differente, perchè eliminando le possibilità di conflitto si elimina la possibilità di produrre soluzioni alternative al sistema dominante.
E' chiaro che le pedagogie attive sono più evolute rispetto alle pedagogie passive, ma è altrettanto chiaro che le pedagogie realmente attive devono essere pedagogie libertarie, devono essere in pochi termini delle anti-pedagogie. E inoltre: non si può pretendere ad un insegnante che è servo e servile dentro di educare i giovani alla libertà. Non ci sarà nessuna teoria pedagogica in grado di rendere libero chi è abituato da sempre ad ubbidire e abbassare la testa.
Il problema non è quindi la scuola delle competenze. Il problema è la scuola come istituzione repressiva, autoritaria e reazionaria.
E allora - torniamo - cosa può fare un insegnante? L'abbiamo detto più volte e da tempo: autonomia creativa (perchè non può esistere educazione senza educazione all'autonomia), costruttivismo critico (che è altra cosa rispetto al costruttivismo modaiolo), scuola-vita.
Descolarizzare operando dentro il sistema non è possibile, ma è almeno nostro dovere sabotare in ogni modo la scolarizzazione e l'inebetimento di massa.

Antonio Saccoccio

lunedì 24 gennaio 2011

Giorgio Manganelli, Umberto Eco e le tesi di laurea

La nostra scuola e il nostro sistema educativo vive di riti. Uno di questi riti è la tesi di laurea. Sull'inutilità di tale lavoro lasciamo volentieri parlare Giorgio Manganelli, che fu professore e professore universitario (ma anche scrittore d'avanguardia) e in un solo colpo (uno dei suoi micidiali corsivi) polverizzò le tesi di laurea e ironizzò acutamente sul fortunatissimo libro di Umberto Eco "Come si fa una tesi di laurea".

Ecco Manganelli, nel 1977.

Umberto Eco ha scritto un libro estremamente gradevole, divertente, lucido; un po’ manageriale, da manager giovane e aggressivo, cui piacciono le cose ben fatte. Il libro insegna come si fa una tesi di laurea; ed è talmente accattivante, da far venir gola di laurearsi da capo. A mio avviso, bisogna resistere. Eco ha un suo modo di sussurrare, raccontare, inventare le vie, le virtuose trame che consentono di scrivere una tesi che, a negargli ascolto, ci vuole protervia. L’avessi incontrato, un libro così fatto, nella mia giovinezza, avrei imparato a fare cose che non saprò mai fare. Ad esempio, le note a piè di pagina. Troppo tardi: incapace di frequentare metodicamente le biblioteche nostrane, di compilare schede, di catalogare argomenti, di redigere note, ho dovuto ridurmi a fare il genio. Miserabile fine, per chi era nato per gli studi. Ma, in questo modo, mi sono esentato da tutto ciò che non so fare, che è, appunto, tutto.

Tuttavia, il motivo per cui bisogna resistere, con la stessa fermezza con cui si respingono i volantini intitolati a “un mondo migliore”, è che, a mio avviso, è giunto il momento di non far più tesi di laurea, di espellere questa cerimonia da quel che resta delle nostre facoltà. È vero: detesto le tesi di laurea, deploro le ore che ho passato a leggerle, a seguirle, a farne relazione; non credo che, nella facoltà in cui lavoravo, nessuno abbia mai imparato nulla dalla tesi di laurea, eccetto che le strade dell’umiliazione e dell’astuzia sono infinite. [...] La tesi di laurea generalizzata è, comunque, in precipitosa decadenza, come è in decadenza l’esame di maturità. Quanti “dottori” sono laureati, si laureano, con tesi comprate già fatte, fatte su commissione, come gli uxoricidi, con tesi riciclate? E la tesi “di compilazione”, fatta con colla e fotocopie, sarà poi una straordinaria esperienza intellettuale? Non credo che tutto ciò dimostri che i laureandi sono tendenzialmente delinquenti o sciocchi: non occorre creare una polizia universitaria, né inaugurare una psichiatria dei laureandi. Io credo che sia ormai diffusa la convinzione che l’esperienza di scrivere una tesi, di mettere assieme una ricerca di seconda, terza mano, sia del tutto periferica, una bizzarria cui bisogna acconciarsi, perché ad un certo momento dall’università bisogna pure venire fuori.

Libro tecnico e manageriale, quindi, quello di Eco. Niente di più. Un testo che può essere utile ma molto di più è utile a tutti noi la raccomandazione di Manganelli: occorre eliminare questa pratica inutile dai nostri corsi di studi. I giovani trovano scorciatoie per la stesura della tesi (tesi su commissione), ma non perchè sono delinquenti, ma perchè hanno capito che devono riuscire ad aggirare il sistema in qualche modo e riuscire a mettere i piedi fuori dall'università. Stesso discorso si può fare per i ragazzi che trovano scappatoie per uscire dalle scuole secondarie. Non sempre sono le scorciatoie migliori. Spesso si potrebbero trovare vie d'uscita più interessanti (e divertenti). Ecco, forse i professori alla Manganelli potrebbero insegnare ai ragazzi la via per uscire nel migliore dei modi dalla scuola e dall'università. Sempre aspettando che qualcosa cambi finalmente. E radicalmente.

Antonio Saccoccio

sabato 15 gennaio 2011

La scuola-carcere: dal futurismo al situazionismo

L'assunto centrale di Giovanni Papini, nel suo Chiudiamo le scuole del 1914, era che la scuola non potesse insegnare nulla di buono, perchè rinchiudeva i ragazzi in un carcere in cui mancava la prima condizione per un sano apprendimento: la libertà.
Assai significativo è trovare, nell'incipit di un altro testo d'avanguardia contro la scuola (questa volta scritto alla fine del secolo scorso), la medesima metafora del carcere.
Si tratta dell'Avviso agli studenti di Raoul Vaneigem, scrittore e filosofo situazionista ancora vivente.
Leggiamo le prime due frasi di questo illuminante testo:
La scuola è stata, con la famiglia, la fabbrica, la caserma e accessoriamente l'ospedale e la prigione, il passaggio ineluttabile in cui la società mercantile piegava a suo vantaggio il destino degli esseri che si dicono umani.

Il governo che essa esercitava su nature ancora appassionate delle libertà dell'infanzia l'apparentava, infatti, a quei luoghi poco propizi alla realizzazione e alla felicità che furono - e che restano in diversa misura - il recinto familiare, l'officina o l'ufficio, l'istituzione militare, la clinica, le carceri.

Rileggiamo ora l'incipit di Papini:
Diffidiamo de' casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto - contro la morte - contro lo straniero - contro il disordine - contro la solitudine - contro tutto ciò che impaurisce l'uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine.
Sembra incredibile, a distanza di ben 80 anni, ritrovare gli stessi accostamenti (scuola-carcere-ospedale-caserma) in testi che si ripropongono obiettivi tanto simili. Eppure questo è significativo per definire lo stato di totale impaludamento dell'istituzione scolastica.
L'accusa del futurista Papini, elaborata nei primi decenni del Novecento, si sposa con quella del situazionista Vaneigem, diffusa nell'ultimo decennio del secolo.
La cultura d'avanguardia ha sempre sferrato i suoi attacchi contro la scuola in modo perentorio. La scuola è il primo freno per qualsiasi tentativo di innovazione.

Leggiamo ancora Vaneigem:
La scuola ha forse perso il carattere ributtante che presentava nel XIX e XX secolo, quando rompeva gli spiriti e i corpi alle dure realtà del rendimento e della servitù, facendosi gloria di educare per dovere, autorità e austerità, non per piacere e per passione? Niente è meno certo, e non si potrà negare che sotto l'apparente sollecitudine della modernità, numerosi arcaismi continuano a scandire la vita di studentesse e studenti.

L'impresa scolastica non ha forse obbedito fino ad oggi a una preoccupazione dominante: migliorare le tecniche di ammaestramento affinché l'animale sia redditizio?

Ecco centrato lucidamente il bersaglio. La scuola educa con il dovere e l'autorità, invece di educare attraverso il piacere e la passione. Non ci sono giri di parole. Non c'è bisogno di argomentazioni sofisticate. La triste realtà è alla portata di tutti. La scuola compie un errore gravissimo attribuendo valore ai principi del dovere e dell'autorità, mentre demolisce integralmente la capacità di appassionarsi e di cercare piacere. Si ammaestra l'animale, non si lascia evolvere l'essere umano.
E allora la naturale conseguenza:
Nessun ragazzo supera la soglia di una scuola senza esporsi al rischio di perdersi: voglio dire di perdere questa vita esuberante, avida di conoscenze e di meraviglie, che sarebbe così esaltante nutrire, invece di sterilizzarla e farla disperare con il noioso lavoro del sapere astratto. Che terribile constatazione quegli sguardi così brillanti di colpo sbiaditi!

Chiunque abbia presente quegli sguardi vivaci trasformati dalla scuola in sguardi annoiati, demotivati, spenti, aggravati, non può non desiderare la fine della scuola. La scuola si configura oggi come la più grande imbecillità mai partorita dall'uomo. Miliardi di bambini e ragazzi costretti dalla stupidità statale a perdere ore e ore di vita e forse l'intera giovinezza nello sterilissimo studio scolastico.

Ecco quattro muri. Il consenso generale decide che, con ipocriti riguardi, vi saremo imprigionati, costretti, colpevolizzati, giudicati, onorati, puniti, umiliati, etichettati, manipolati, vezzeggiati, violentati, consolati, trattati come aborti che questuano aiuto e assistenza. Di che cosa vi lamentate? obbietteranno gli autori di leggi e decreti. Non è forse il modo migliore di iniziare i novellini alle regole immutabili che reggono il mondo e l'esistenza? Senza dubbio. Ma perché i giovani dovrebbero ancora accontentarsi di una società senza gioia e senza avvenire, che gli stessi adulti sopportano ormai rassegnati, con un'acrimonia e un malessere crescenti?

Una scuola dove la vita si annoia insegna solo la barbarie.

L'avanguardia lotterà sempre contro la scuola che mortifica la vita e l'autonomia individuale, contro la scuola maestra d'autoritarismo e servilismo.

Antonio Saccoccio